Il suo abbraccio è caldo e rassicurante. Si sente che lo fa perché ha voglia di farlo, per trasmetterti qualcosa di bello e dolce: di familiare. Ugo De Rosa non è solo uno dei signori della bicicletta, uno dei grandi maestri che hanno contribuito a far conoscere nel mondo l’Italia del pedale, ma è soprattutto un amico, che ha sempre una buona parola da donarti e, soprattutto, ha sempre qualcosa di bello da raccontarti. E se il racconto nasce in questa atmosfera magica del Natale spesso i racconti assumono il sapore delle favole.
«Sai che mi manca Felice? – mi dice all’improvviso -. Sì, mi manca tanto: era proprio una bella persona Felice. Una persona buona. Mi ricordo ancora quando in quel Tour del ’75 l’ammiraglia Bianchi guidata da Giancarlo Ferretti, che con se portava biciclette di scorta, ma anche quel portento di meccanico che di nome fa Piero Piazzalunga, finisce giù in un burrone. I due restano sospesi nel vuoto. Sono pieni di botte, e soprattutto non è facile recuperarli, ma dopo qualche ora vengono fortunatamente portati in salvo. Il problema è che le biciclette sono andate tutte distrutte e di conseguenza la Bianchi non ha nemmeno una bicicletta di scorta. Pochi sanno che quella sera, quando tornai in albergo, Eddy (Merckx, ndr) mi prese in disparte e mi disse: “Ugo, vedi di andare a vedere come è la situazione alla Bianchi, diamo una mano a Felice…”. Io vado e di mani ce ne metto due. Valuto la situazione e preparo tre biciclette per il giorno dopo. Felice mi ha sempre voluto bene per questo, e ha sempre avuto una grande considerazione anche per l’amico rivale. D'altronde non è retorica quando si dice che il ciclismo è da sempre una grande famiglia».
Ma i racconti che hanno il sapore delle fiabe sono anche come i datteri: uno tira l’altro. «Felice, che bella persona era Felice – prosegue Ugo -. Sono di ritorno dai mondiali di Villach (1987, Stephen Roche, ndr) con Giancarlo Ferretti. Assieme eravamo andati in Austria per provare a fare qualche buon acquisto che sarebbe dovuto risultare utile alla nostra Ariostea, però si torna a casa con un nulla di fatto. Siamo sulla strada del ritorno quando ad un certo punto veniamo affiancati da un tizio che ci fa segno di accostare: è Felice Gimondi. “Lo porto io Ugo a Milano – dice deciso Felice -. Tu Ferron tira dritto per Lugo che di strada da fare ne hai già a sufficienza”. Un gesto bellissimo, per non far allungare la strada a Giancarlo, e una cortesia al sottoscritto che ha sempre avuto la considerazione di uno dei corridori più bravi e capaci di sempre. Quel giorno ho vissuto uno dei viaggi più belli e piacevoli della mia vita. Parlammo di tutto per ore: di corse e delle nostre famiglie, di una vita intensa che ci scorreva davanti agli occhi velocissima… Felice, che bella persona era Felice…».