Giro del Lazio 1967: primo Felice Gimondi, secondo Eraldo Bocci. Molti anni dopo, a Roma, non più a due ruote ma a quattro, l’ordine si ribalta quando Gimondi ferma un taxi, apre la portiera, sale sul sedile posteriore e davanti a lui, al volante, alla guida, c’è proprio Bocci: dunque, stavolta, primo Bocci, secondo Gimondi.
“Quando vita fa rima con salita” è un curioso libriccino scritto da Mauro Chechi (Ristampa, 84 pagine, 10 euro) su Eraldo Bocci, “il ciclista di Arlena di Castro”, classe 1942 (come Gimondi), professionista dal 1967 al 1970, i primi tre anni nella Germanvox di Vito Taccone e Ole Ritter, l’ultimo nella Ferretti dei quattro fratelli Pettersson (e del direttore sportivo Alfredo Martini), ma prima allievo e dilettante vincente e anche azzurro (al Gran premio d’Europa in Germania).
Le prime pedalate date “di sbieco” (infilando una gamba tra il tubo orizzontale e quello obliquo), l’acquisto di una Legnano da corsa (“Il mio idolo era Gino Bartali e, durante i miei allenamenti coprendo chilometri su chilometri, tenevo bene impressi nella mente il coraggio, l’impegno e i successi che lo avevano reso leggendario”), le prime corse (“Nel battito delle mani sentivo un suono che mai nessuna musica era riuscita a esprimere”), la prima vittoria (“A Montefiascone, paese in cui si amava, si seguiva e si praticava il ciclismo ad alti livelli”, dai fratelli Trapè a Sante Ranucci).
Ogni corsa sarebbe un romanzo. Quel secondo posto ad Aprilia fra i dilettanti (“A causa di un guasto alla mia bicicletta, partecipai con un’altra reperita all’ultimo momento… Avendo un telaio numero 60, per me che ero abituato a correre con telai numero 55…), quel secondo posto alla Milano-Vignola 1968 in volata dietro a Marino Basso, quel sesto posto al Giro dell’Appennino 1969 (“Purtroppo, credendo che fosse stato possibile riprendere i primi tre, mi impegnai troppo nel tirare il gruppetto degli inseguitori”), quel decimo posto nella quinta tappa del Tour de France 1970 (“Partita con 150 concorrenti, fui tra i 50 corridori che abbandonarono la corsa”). Ma anche quei due primi posti, una prova a eliminazione durante il circuito degli assi di Terni nel 1968 e una prova di velocità nel Velodromo olimpico di Roma.
E quella volta che Jacques Anquetil lo spinse (“Per via delle forti raffiche di vento rischiavo di staccarmi… Mi permise di rimanere nel gruppo”), e quella volta che al Giro d’Italia 1968 vinse il traguardo volante a Rieti e il premio di 100 mila lire (“Come avevamo promesso, rispettando l’accordo, io e lo svizzero Brand rallentammo per farci riprendere dal gruppo, lo spagnolo Santamarina no e vinse la tappa”), e quella volta che da allievo disputò una corsa a Magliano Sabina (“Ottanta chilometri da Arlena di Castro alla partenza, 80 di corsa e 80 per tornare a casa, totale 240, l’ultimo tratto di strada lo percorsi di notte”).
Alle avventure di Bocci (arricchite da numeri, schede, ritagli e foto, oltre che da due poesie di concittadini), Chechi aggiunge anche un alfabeto del ciclismo (G come gregario, N come neve, U come ultimo…). Qualche inesattezza nelle didascalie (non è Giacchero, ma Gaggero a pagina 60, non è Ticozzelli ma Pinarello a pagina 79…), ma amen, perché il resto è quasi poesia.
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