Gino Cervi ha ancora il dubbio se fu un vuoto di fantasia o un pieno di spirito quello che indusse i suoi genitori a chiamarlo come l’attore del commissario Maigret italiano. A esplorare, qualche remota parentela con Gutenberg deve pur possederla, se non vantarla: giornalista, scrittore, redattore, curatore, traduttore, non esiste angolo dell’editoria che non abbia respirato e che non lo abbia impegnato, dalle guide ai romanzi, dalle biografie ai racconti per ragazzi. E pedala con la stessa fede ed eleganza nelle biblioteche come sugli sterrati, scarpe all’inglese o cappellino con visiera, giacca e cravatta o maglia di lana. Gino ha il dono dell’educazione e della mitezza, il gusto della ricerca e dell’approfondimento. Ed è una persona pulita dentro. Il suo bello.
Giovanni Battistuzzi è più giovane di Gino, ha più diottrie e capelli di Gino, e il suo accento illumina origini venete, che neppure la vita a Roma – redattore nel “Foglio”, ambiente sport, su carta e rete – riesce ancora a scalfire. Cinque anni fa si avvicinò così tanto al ciclismo da restarne coinvolto se non travolto: dall’esperienza al Giro d’Italia nacque prima un libro, “Girodiruota”, poi un blog, ribattezzato “Girodiruota” anche quello, non si sa se per lo stesso vuoto di fantasia o pieno di spirito che avevano colpito i genitori di Gino Cervi. Giovanni ha la curiosità e la passione di chi ci crede, di chi lo sente, di chi si prodiga a prescindere, di chi lo fa per il gusto di. Ed è così che lo si può incontrare, a pedali, modestamente, anche al Festival del ciclista lento.
Stavolta parto dagli autori per recensire “Alfabeto Fausto Coppi” (Ediciclo, 320 pagine, 28 euro), elegante e affettuoso volume pubblicato poco prima del centenario della nascita e del sessantesimo della morte del Campionissimo: 99 storie e una canzone, con 21 disegni di Riccardo Guasco e la prefazione di Adriano Sofri. Un’opera, nell’effervescenza di questo 2019, diversa. Perché ogni capitolo è un titolo, un luogo, una data e un racconto su un episodio già più o meno raccontato, conosciuto, scritto, pubblicato, celebrato. Perché Coppi è un fuoco inestinguibile, una miniera inesauribile, un patrimonio inestimabile. E perché non c’è casa italiana dove non sia custodito un segreto, un oggetto, un ricordo, dove non sia protetta una fotografia nell’album e nel cuore di una famiglia. L’Italia è coppiana.
Per esempio: “Caschetto”, Oslo, febbraio 1952, il racconto delle vite parallele di Fausto Coppi e Zeno Colò, Fausto che volava su due ruote in salita e Zeno su due sci in discesa, Fausto che veniva dalle colline di Tortona e Zeno dalla montagna dell’Abetone (là dove Fausto si sarebbe rivelato), e “fu forse vedendolo scendere a quella folle velocità che Fausto pensò che Zeno almeno un caschetto poteva metterselo. Per prevenire il peggio sarebbe bastato anche uno di quelli a strisce di cuoio imbottite, uno di quelli che usava lui in pista. Gliene inviò uno. Alle Olimpiadi di Oslo, nel febbraio del 1952, l’anno in cui Fausto vinse per la seconda volta Giro e Tour, Zeno Colò per la prima volta si calcò un caschetto sulla testa già ormai abbondantemente stempiata. ‘Me l’ha dato il mio amico Fausto’, disse prima di buttarsi giù per i 710 metri di dislivello della Norefjell. Arrivò primo e fu la prima medaglia d’oro nello sci alpino di un italiano alle Olimpiadi invernali. Fumava come Bartali ma volava come Coppi”.
Ecco.
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