Quella di ieri è stata la grande giornata di Damiano Caruso. Sulle montagne del mito, visto che è stato protagonista della fuga ed è transitato primo sull'Izoard, e prima ancora sulle pagine de L’Equipe. Il quotidiano francese ha dedicato una lunga intervista (raccolta da Philippe Brunel, grande conoscitore del ciclismo, di quello italiano in particolare) al corridore siciliano della Bahrain Merida nella quale si è parlato di ciclismo («facendo il gregario si finisce per perdere il senso della vittoria») e di tanti altri temi importanti, come la mafia, la Sicilia e il padre che ha fatto da scorta a Giovanni Falcone. Sono proprio questi ultimi i passaggi che vi vogliamo proporre.
Falcone e papà. «Mio padre è entrato in polizia dopo il servizio militare, non aveva lavoro e si è ritrovato a Palermo nel 1984 nella scorta del giudice Falcone, guardia del corpo negli anni di piombo, e aveva appena 19 anni. Me ne parla con orgoglio e fierezza, con la consapevolezza di aver vissuto momenti storici. Falcone è stato il primo a combattere apertamente la mafia. All’epoca era diverso, bisogna avere uno straordinario coraggio, un grande senso del sacrificio per mettere la propria vita in gioco, come ha fatto mio padre per un altro, per un milione e e 200mila delle vecchie lire, gli attuali 600 euro».
Saviano e la mafia. «La mafia bisogna raccontarla ma Saviano ci fa business, nella Serie Gomorra lui talvolta romanza, si fa bello ma vive di questo. Lui odia la mafia e se ne nutre. Falcone, invece, ha pagato con la vita».
La Sicilia. «Io vivo la vera Sicilia, Ragusa è a sud, è una zona turistica, la mentalità è più aperta, io abito a 200 metri dalla villa del commissario Montalbano, quello della serie tv, mi è capitato di assistere a qualche ripresa».
I siciliani. «Il siciliano per carattere si lamenta facilmente e non fa nulla per cambiare le cose, ma io non piango mai. Vivo in Sicilia e ne sono felice. Spesso mi dicono: sei cretino a rimanere là, dai la metà dei tuoi guadagni allo Stato ma io mi rifiuto di farmi cambiare dal denaro. E se mia moglie Ornella non avesse supportato la mia scelta di fare il ciclista e le mie assenze, mi sarei accontentato di una vita più tranquilla. Sì guadagno, ma non potrei mai vivere in 20 metri quadrati a Montecarlo o a Lugano. Abbandonare la Sicilia equivale a condannarla. Quando vado all’aeroporto, sono sereno perché so che la mia famiglia è tranquilla dov’è».
La grande vittoria. «Mi manca, non lo nego. Quest’anno, al Giro, avrei potuto vincere la tappa del Mortirolo. A Ponte di Legno ero più veloce di Ciccone e Hirt ma mi hanno chiesto di aspettare Nibali. Pioveva, ero congelato, ho aspettato, è il contratto. Se mi avessero considerato un po’ di più, avrei vinto. A forza di essere gregario, di sacrificarsi per la squadra, si perde il senso della vittoria».
Sottovalutato. «Corro nell’ombra del gruppo, nel limbo, tra il paradiso e l’inferno. Non si parla mai di me, posso comprenderlo ma talvolta sono sottovalutato e mi piacerebbe che la stampa fosse più democratica».