“Anni speciali”. E’ quello che cerca di far capire ai suoi corridori. “Adesso, forse, ne sentono soltanto la fatica e le rinunce, le speranze e le delusioni, lo stress e le soddisfazioni. Ma non ancora la magia delle avventure e neanche il sortilegio delle disavventure. Li scopriranno a cose fatte, a corse chiuse, a carriera finita. Finalmente ne avvertiranno il fascino. E cominceranno a rimpiangerli e ricordarli”.
Orlando Maini ha 60 anni, ma l’energia di un Under 23, l’età dei ragazzi con cui convive e che dirige, anche qui al Giro della Valle d’Aosta. Dopo 10 anni da corridore e 23 da direttore sportivo tra i professionisti, da un anno e mezzo “il Màino” (come lo chiamano in gruppo) è alla guida della Beltrami-Hopplà-Petroli Firenze. Ed è in questo ruolo che distribuisce consigli, dispensa sorrisi, moltiplica incoraggiamenti, regala complimenti, impartisce ordini, elenca comandamenti, allunga borracce, brandisce barrette, profetizza addirittura la vittoria di Caleb Ewan al Tour de France, impugna il volante e agisce sui pedali dell’ammiraglia come se fosse al luna park.
Innamorato della bicicletta (“C’è qualcosa di più straordinario?”), sedotto dal ciclismo (“Seguivo le vicende di mio zio Primo Franchini, gregario di fiducia di Vito Taccone”), corridore solido (“Anch’io gregario, da Visentini a Bertoglio, da Lejaretta fino a Fondriest, e compagno di squadra – per dirne solo due – di Amadori e Cassani”), e subito direttore sportivo (“Tecnico della squadra dell’Emilia Romagna al Giro d’Italia dei dilettanti, c’era anche un certo Marco Pantani, con lui quando fu secondo nel 1991 e primo nel 1992”). Campione, questo sì, di modestia: “Il più forte dei Maini era mio fratello Floriano: lui ne vinceva 10 l’anno, io 10 in tutto”. Però: “Due da professionista. Una tappa alla Vuelta, nel 1984, e una al Giro, nel 1985. E tutt’e due nello stesso modo: fuga da lontano e vittoria in volata, a Soria battendone uno, a Jesi superandone sette”.
Sull’ammiraglia, mentre precede l’intenzione dei corridori di chiedere una borraccia o mentre si arresta ai bordi della strada per cambiare una ruota, l’Orlando innamorato confida emozioni (“Pantani e Scarponi erano così diversi, ma in una cosa erano anche così uguali: nel voler bene agli altri”) e sensazioni (“Quando mi prendeva per un braccio o mi toccava una spalla, riconoscevo immediatamente che era lui, Martini. Perché sentivo un calore magnetico e benefico”), racconta storie (“La prima legge me la insegnò mio nonno: a tutto – diceva – c’è rimedio. Significa che non bisogna mai farsi prendere dal panico o dalla rassegnazione, ma credere e lottare fino in fondo”) e aneddoti (“Ero impiegato in banca, addetto al caveau, quando andai dal direttore e chiesi un’aspettativa. Perché?, mi domandò. Perché voglio provare a diventare un corridore, gli risposi”).
La vita è una ruota, anzi, due: “I ragazzi che scelgono il ciclismo – spiega Maini – sono più uomini precoci che eterni bambini, perché con il ciclismo scelgono anche di fare sacrifici non dovuti, ma indispensabili. Il ciclismo esige serietà, impegno, costanza. La bici non perdona, non maschera, non concede alibi o scuse. La vita dei corridori è fatta così. Ed è per questo che i corridori non sono gente normale. Però vivono anni speciali”. Lo sapranno, se li ricorderanno.
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