Era un rivoluzionario. Condusse il giornalismo dalla retorica all’umanesimo, dalle cronache ai ritratti, dalle storie ai romanzi, perfino dalla carta alla tv, lui che televisivo non era. Era un rivoluzionario. Nel ciclismo sposò Fausto Coppi e lo accompagnò dai trionfi al Tour de France fino al funerale a Castellania, nel calcio abbracciò il catenaccio e il contropiede, nell’atletica s’innamorò dell’umana poesia che unisce discoboli e siepisti. Era un rivoluzionario. Nel linguaggio, negli editoriali, nelle rubriche.
Il rivoluzionario Gioannbrerafucarlo viene festeggiato nel centenario della nascita con “Gianni Brera ha cent’anni” (PMP Edizioni di Lodi, 150 pagine, 10 euro), in cui Alessandro Colonna illustra - a fumetti - sprazzi dell’ultima intervista rilasciata da Brera ad Andrea Maietti il 17 dicembre 1992, due giorni prima di morire. Lì c’è un po’ di quello che tutti avrebbero voluto farsi raccontare: l’origine padana “figlio legittimo del Po”, la vocazione per la scrittura da “raccontista”, la passione per il calcio giocato da “centromediano”, ma anche quella per la boxe che gli avrebbe ispirato “Naso bugiardo”, poi gli studi classici, la guerra da paracadutista, le prime collaborazioni fino alla direzione della “Gazzetta dello Sport”, e l’inizio della vecchiaia, “sentirsi consumare piano piano e non essere inutile del tutto”.
Brera scriveva di Gianni Rivera l’abatino e di Gigi Riva “Rombo di tuono”; a Gino Bartali aveva indirizzato una lettera in cui confessava che lo aveva detestato e gli rivelava che, in fondo, lo stimava; a tavola, come alla scrivania, sentenziava che “sarai uomo vero se saprai bere mantenendo costantemente il cervello a pelo di brentina” (una specie di bigoncia in legno, usata per trasportare vino e mosto). Brera scriveva anche di storia (“Storia dei Lombardi”) e di vini (“Bacco e il vino negli ex libris”), di rugby (sul Petrarca Padova) e di pittura (su Aligi Sassu). Brera scriveva prefazioni e introduzioni, commenti e quaderni. Brera esagerava a provocava, sconfinava ed esplorava. Brera passava dagli incontri alle invettive. Brera aveva il culto del lavoro, non per vanagloria personale (magari un po’ sì) ma per dovere professionale. Lo sapeva fare (e sapeva di saperlo fare), perciò studiava e lavorava. Sodo.
“Gianni Brera ha cent’anni” (testi di Francesco Dionigi e Andrea Maietti, con introduzione di Marco Pastonesi, prefazione di Giorgio Terruzzi e postfazione di Claudio Rinaldi), ma non li dimostra. Anche oggi, con il giornalismo stravolto e i giornalisti trasformati, Gioannbrerafucarlo emergerebbe comunque con una storia, con un fondo, con un tweet. Irraggiungibile.
Se sei giá nostro utente esegui il login altrimenti registrati.