Aveva il dovere dello studio: iscritto a Giurisprudenza, si laureò con una tesi in diritto penale. Aveva la vocazione per la scrittura: a 21 anni compose “Amor che uccide”, un bozzetto rusticano di 16 pagine, a 22 pubblicò “Martirio”, un romanzo di 220 pagine. Aveva la passione per il velocipede: a 23 anni era tra i soci fondatori del Veloce Club Perugia, ne redigette lo statuto, ne promosse l’attività, ne organizzò le prime gare, e diventò campione perugino. Aveva il destino dell’avvocato: e aprì uno studio legale a Milano. Ma aveva l’istinto del giornalista: collaborò con il quotidiano “Il Secolo”, a 27 anni fondò il settimanale “La Illustrazione Velocipedistica Italiana”, a 29 divenne cofondatore e condirettore della “Gazzetta dello Sport”. E aveva lo spirito dell’organizzatore: lanciò manifestazioni sportive per incrementare le vendite dei suoi giornali.
Inventivo, creativo, visionario. Anarchico, socialista, rivoluzionario. Coraggioso, orgoglioso, risoluto. “Eliso Rivera” (il volume – 272 pagine, prezzo non indicato, pubblicato dal Comune di Masio) è il romanzo della sua vita, scritto (ma sembra raccontato, narrato, a volte perfino cantato) da Claudio Gregori con l’entusiasmo di sempre. Un libro straripante di avventure e curiosità, paralleli e incroci, fatti e dati, voli e confronti, scoperte e citazioni, una parentesi via l’altra. Perché fu Rivera ad allargare il ciclismo alle corse di resistenza (“Non sono affatto impossibili”) fino al debutto della Gran Corsa del 1894, 530 km, partenza dall’Arena napoleonica neoclassica di Milano, arrivo a Torino, passando per mezza Italia settentrionale, il primo – il pavese Eugenio Sauli – impiegò quasi 32 ore e mezzo, mentre Giuseppe Pasta, che 24 anni prima aveva vinto la prima gara di velocipedi a Milano, ci mise il doppio perché si fermò a incontrare gli amici, mangiare e dormire, partecipare a feste e rinfreschi.
Perché fu Rivera a credere non solo nella bici ma anche nel tandem, nella tripletta, nella quadrupletta, nella quintupletta, fino alla decupletta, e a non scandalizzarsi per il totalizzatore delle scommesse né alla presenza degli allenatori, i corridori incaricati di tagliare l’aria agli atleti, e a incoraggiare il ciclismo femminile. Perché fu Rivera, senza mandarle a dire, a lottare contro la targhetta alle biciclette, fornita dietro il pagamento di una tassa di 2 lire (“Ciclisti, strappate la targa, non portate il ridicolo emblema e gridatelo ai patres conscripti di Milano: noi non siamo un numero”).
In questo caleidoscopio di novità, in questa giostra di iniziative, in questo carosello di eventi, Rivera ci sguazzava e ne godeva almeno quanto Gregori, conquistato contemporaneamente da cento altri Rivera. Come Adolfo Cotronei, vicedirettore della “Gazzetta dello Sport”, che osò battersi a duello contro tre olimpionici: Aldo Nadi (nel primo assalto sorprese e ferì il campione - tre ori - dei Giochi di Anversa nel 1920, negli altri due riportò ferite al braccio e al costato), Giorgio Santelli (figlio del maestro Italo, ultrasessantenne e dunque sostituito secondo le leggi cavalleresche, da cui riportò ferite alla testa e un tic nervoso inguaribile) e Nedo Nadi (sei ori olimpici, da cui venne colpito all’addome, ma che si salvò grazie a un bottone che aveva deviato la traiettoria della lama). O come Buffalo Bill: il primo, quello vero, che si era presentato a Milano nel 1890 con 65 indiani, 20 bufali, 170 cavalli e una formidabile tiratrice; e il secondo, un impostore, che si cimentava nella sfida tra cavaliere e ciclista, dunque tra cavallo e bicicletta, con un cavallo che irruppe tra la folla. Come Howard Passadoro, gallese di origini genovesi, che preferì una gara di canottaggio, in cui finì terzo, alla finale del primo campionato di calcio, in cui il Genoa sconfisse l’Inter 2-1 con un gol nei supplementari (ma Passadoro si sarebbe rifatto con altri quattro scudetti).
Su tutto si erge “La Gazzetta dello Sport”, che Rivera guidò dalla nascita per un paio di anni finché, accusato di sovversione, fu imprigionato per 22 giorni. Nelle parole di Armando Cougnet, Eugenio “Magno” Costamagna, l’altro condirettore, e Rivera erano “due innamorati del bello e del buono, della forza e del coraggio – un letterato e un penalista – percorrevano da anni la medesima strada. Un giorno si raggiunsero, s’appaiarono, si compresero e decisero di unire le loro singole iniziative”. “La Gazzetta dello Sport”, bisettimanale, tiratura del primo numero 20mila copie, era verde pallido, aveva quattro pagine, si occupava di ciclismo, ippica, canottaggio, tiri, caccia, alpinismo, ginnastica, scherma, lawn-tennis e giuochi sportivi. La prima notizia di calcio, che allora si chiamava football, apparve il 30 aprile 1896, 27 giorni dopo il debutto del giornale. Nel fondo di presentazione, era “l’unico giornale d’Italia che ha per programma il culto di tutti gli sports e di tutte le manifestazioni ginnastico-sportive, come quelle che servono mirabilmente alla fisica educazione”. E per lanciarlo, Rivera ideò la Monza-Milano a piedi: “Abbiamo voluto promuovere una corsa ed una marcia dotandole di ricchi premi e di numerose medaglie… Abbiamo voluto cominciare con lo sport pedestre, il più semplice, il più popolare, il più democratico: lo sport di tutti”.
Tanto progressismo, tanta lungimiranza, tanta sensibilità finirono con il danneggiarlo. Nel fondo di addio, Rivera confessò: “Il giornalismo, così come l’ho fatto io, non rappresenta solo una professione, ma è altresì una vera passione: la gazzetta è come una bella donna che si ama; puoi distaccartene, dimenticarla mai”. Cambiò lavoro, cambiò vita: e tornò a fare l’avvocato. Sempre con il rigore e l’onestà dell’uomo verticale.
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