Davide Goetz, da diversi anni presidente dell'ADISPRO, interviene a tutto campo sulla situazione del ciclismo professionistico. L'avvocato va dritto al nocciolo della questione: la riforma dell'UCI che dopo anni di “chiacchiere” sta per diventare realtà.
L’imminente riforma UCI sul ciclismo professionistico sembra portare alle estreme conseguenze la tendenza, in corso da anni, verso l’eliminazione degli inviti nelle grandi competizioni.
«Ne stiamo parlando, appunto, da anni e in concreto non stiamo facendo niente, pur sapendo che il rischio, per non dire la certezza, è quello della morte del nostro movimento ciclistico. Questo senso di impotenza e di rassegnazione lo trovo scandaloso, perché è assurdo che le istituzioni deputate alla difesa dei nostri valori non battano un colpo. Renato Di Rocco è il vicepresidente UCI e in tale sede avrebbe il dovere, io credo, di opporsi con ogni mezzo all’approvazione di una riforma che creerà un sistema chiuso, senza più collegamenti con i movimenti di base nazionali che in Francia, Spagna, Belgio, Olanda, ma soprattutto in Italia hanno costituito la culla di questo sport per oltre un secolo, con creazione di cultura sportiva e di posti di lavoro».
Ma è giusto puntare il dito sulla nostra Federazione?
«Non punto il dito e parlo con il massimo rispetto delle istituzioni e delle persone. Ma non ho più il coraggio di guardare in faccia chi mi ha eletto in associazione raccontando che c’è stata la tale riunione o la talaltra lettera sistematicamente inutile, quando ormai sono anni che accettiamo supinamente questo declino. Si è fatta consapevolmente confusione tra anime del movimento che hanno esigenze del tutto diverse, sacrificando enormemente, io credo, quella che di fatto funge da traino allo sviluppo e alla promozione di questo sport, mi riferisco al ciclismo agonistico su strada. La Federazione ha continuato a esibire risultati in discipline minori o tesseramenti nel mondo amatoriale, dimenticando i risultati sempre più penosi che riguardano la strada».
E’ un giudizio estremamente negativo…
«Qualcuno dovrà pur dirlo, una buona volta, liberandosi della paura di urtare la suscettibilità di qualche dirigente. In questa lotta tra poveri, sembra che ormai tutti abbiano timore di parlare chiaro e si respira un’aria irrespirabile di reticenza e di sfiducia. Chi è al comando ha una responsabilità politica e i dati parlano chiaro, il numero di professionisti in vent’anni è ridotto a un terzo, è agghiacciante! Avevamo oltre 90 giornate di corsa e adesso, tolta RCS, ne abbiamo una ventina e con la riforma delle categorie di gara anche queste rischiano di sparire nel giro di due anni. E senza wild card, senza neppure la speranza di fare il Giro d’Italia, che speranze avranno le professional superstiti di fare ancora attività? Diciamo nessuna. I risultati sportivi sono una conseguenza, se togliamo Nibali o i singoli exploit di altri corridori, l’Italia negli ultimi dieci anni è diventata una nazione qualunque».
In fondo abbiamo una grande tradizione e poi ce l’abbiamo sempre fatta, altri stanno peggio di noi.
«Ma noi partivamo da un altro ben diverso livello, nel ciclismo eravamo l’America. Numeri uno in tutto, ai miei tempi correre in bici era un sogno e venivano qui a imparare da tutto il mondo. A volte contava di più vincere certe corse in Italia che andare al Tour. Era un patrimonio enorme, in termini di cultura sportiva e di posti di lavoro, ora è tutto finito, o quasi. Mancando sbocchi diretti nel professionismo, per i giovani praticare l’agonismo è meno appagante, nessuno corre più in bici e la Federazione non manda segnali di allarme, è assurdo. Ci sono intere aree geografiche senza un corridore tesserato che sia uno o una squadra di riferimento, senza una gara in bicicletta».
Ma come si sta muovendo, nel settore giovanile, la nuova Lega Dilettanti?
«Ho assunto per quest’anno il compito di avviare questa associazione e mi sono misurato con un ambiente fortemente depresso, da tutti i punti di vista. Le squadre attive nell’intero territorio nazionale sono rimaste ormai poche decine. Le energie profuse in questa prima fase, anziché essere impiegate per coordinare le risorse ancora a disposizione, in collaborazione con gli organi federali, sono state disperse nella gestione delle polemiche, da parte di chi, all’interno dello stesso movimento, ha visto questa novità anziché come una possibile sferzata di novità, come uno specchio della propria mediocrità».
Cioè?
«Polemiche inutili sul nulla, con riunioni per portare in consiglio questioni del tutto marginali anziché i problemi di sistema che andrebbero affrontati, come l’istituzione di un calendario nazionale che consenta alle squadre una programmazione più attendibile, anche in relazione ai criteri di ammissione delle squadre straniere e alla possibilità di inscrizione al Giro d’Italia. Nei miei dialoghi con gli organi federali ho percepito la massima disponibilità, ma l’ambiente deve essere in grado di fare una sintesi sulle proposte comuni e la costituzione di questa nuova associazione è un tentativo. Ma, come ho detto, non è facile fare sistema».
Eppure dovrebbe essere condivisa un’esigenza di cambiamento.
«Succede che nel momento in cui si tenta di creare un’associazione che sia portatrice nei confronti degli organi federali di richieste unitarie, sui calendari, sui costi, sulle categorie di appartenenza, sulla professionalizzazione, c’è chi crea delegittimazione con atteggiamenti anche personali e con toni che lasciano sconcertati, tanto più in un ambiente ormai così piccolo, dove sarebbe doveroso preservare un clima famigliare e amichevole e incoraggiarsi vicendevolmente anziché alzare la voce senza rispetto. Io ci credo ancora e mi piacerebbe a breve passare il testimone consegnando qualcosa di vivo, spero che i soggetti più seri e motivati non facciano mancare il proprio apporto, ma a volte sembra una lotta con i mulini a vento».
Con quali proposte?
«Rimettere al centro dell’attività federale il ciclismo agonistico su strada, con un progetto chiaro per i giovani, a cominciare dalle scuole e coordinando le risorse che rimangono sul territorio, affinché organizzatori e società facciano sistema e rendano l’accesso al ciclismo più ordinato e stimolante. Ma, soprattutto, fare azioni concrete per salvare il salvabile del ciclismo professionistico nazionale. Il nostro Presidente avrebbe il dovere di incatenarsi ad Aigle, denunciando che questa è una riforma dei grandi organizzatori, non del ciclismo nelle sue espressioni tradizionali e locali, tuttora portatrici di valori e di interessi meritevoli di tutela. Deve essere pensata una riforma che consenta una possibilità di accesso al grande ciclismo per meriti sportivi e non solo per la proprietà di una ventina di licenze».
E’ un po’ come il progetto della superlega di cui si sta parlando nel calcio.
«Certo che è così e giustamente in quel mondo tantissimi hanno fatto sentire la propria voce, evidenziando il valore sia sociale, sia economico, che riveste la Serie A rispetto a una coppa europea, con tutto ciò che ne consegue e livello di categorie minori, anche come sbocco di lavoro per i giovani. Come Lega Professionisti, stiamo valutando un’azione per via giurisdizionale per impugnare la riforma UCI sotto il profilo della preclusione della concorrenza. Mi appello tuttavia a Cairo, che per il nostro ordinamento è proprietario del Giro d’Italia sul piano del suo sfruttamento patrimoniale, ma che allo stesso tempo, trattandosi di un valore che trascende gli aspetti economici e che appartiene a tutti, ha assunto la responsabilità di guardare al bene comune del ciclismo. Mi aspetto da parte sua coerenza, rispetto alle valutazioni che ha espresso nel mondo del calcio».
In conclusione, una grande confusione e un senso generale di disorientamento.
«Il ciclismo, per come lo abbiamo conosciuto nella storia di questo sport e della sua collocazione nella nostra società, non esisterà più, forse proprio perché è cambiata la realtà in cui si era sviluppata questa disciplina, sono cambiate le risorse e il nostro Paese non è più il baricentro di tante cose. Tuttavia, la passione della gente è ancora enorme e non in realtà sento che è ancora viva la speranza che il nostro movimento viva una fase risorgimentale, con una profonda rivisitazione dell’intero nostro sistema. Si è parlato in questi mesi di stati generali del ciclismo, dell’idea di creare un forum tra tutte le sue componenti con un ordine del giorno serio sui problemi non rinviabili. Nessuno ha ritenuto di promuovere l’iniziativa, forse perché ciascuno sino ad oggi ha ritenuto presuntuoso e velleitario assumerne la paternità. In effetti, io credo che sia corretto che sia la Federazione che dovrebbe raccogliere questo grido di dolore, che sia il nostro presidente Di Rocco ad avere ancora la forza di assumere questa importante iniziativa, di rivendicare i valori del tutto peculiari del nostro movimento e di non aver lasciato niente di intentato per difenderli. ADISPRO sostiene Renato e gli chiede di pensare all’importanza di organizzare con urgenza questo momento di riflessione comune».
da tuttoBICI di giugno
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