“Non dite a mia mamma che faccio il giornalista sportivo, lei crede che io sia uno scippatore di vecchiette”. Gian Paolo Ormezzano, Paolo come lo chiama la sua compagna Marlene, Gpo come da acronimo. Ottantatre anni. Esuberante, esondante, esplosivo. Campione di giornalismo. Trent’anni a “Tuttosport”, trenta alla “Stampa”, sessanta a “Famiglia Cristiana”, ora al “Corriere della Sera” di Torino. E colonna, che non è esattamente la traduzione di “columnist”, di “Tuttobici”.
Avrebbe voluto intitolarlo così, chilometrico e wertmulleriano - “Non dite a mia mamma che faccio il giornalista sportivo, lei crede che io sia uno scippatore di vecchiette” – il suo libro sulla “storia calda e ribalda della stampa sportiva”, poi è stato preferito il più asciutto “I cantaglorie” (66thand2nd), presentato lo scorso marzo alla Biblioteca di Pistoia per il fesival “Sport Book & Media”. “Con tre sezioni di tempo ideali: i cantori o gli innamorati, gli erotisti e i pornografi”. E con scelte discutibili: Candido Cannavò tra i pornografi con Aldo Biscardi. Ma Gpo adora provocare.
“Cominciai scrivendo per altri. Gli inglesi li chiamano ‘ghost writer’, fantasmi, i francesi ‘nom de plume’, pseudonimi, ma non è la stessa cosa, in italiano si dice ‘negro’, perché siamo fatti così. Per esempio, scrivevo per Nicolò Carosio”.
”Dopo i Mondiali di Spagna 1982, dopo la finale di Madrid, tornando in Italia, un doganiere ci disse ‘siamo forti’, Gianni Brera gli rispose ‘dietro i forti vanno a cagare i soldati’, dissi a Brera che quel povero cristo aspettava da anni di incontrarlo, e gli è capitata l’occasione dopo la vittoria ai Mondiali, e lui lo ha trattato così, Brera minacciò di mandare a cagare anche me”.
“I giornalisti non si rileggono. Neanch’io. L’unica volta che l’ho fatto, fu per una Spagna-Italia a Barcellona nel 1960. Il direttore, Antonio Ghirelli, mi mostrò il pezzo scritto da Nicolò Carosio, lo giudicò illeggibile, mi allungò un’agenzia Ansa e mi ordinò di riscriverlo. La partita era finita 3-1 per la Spagna, ma il giorno dopo, rileggendo l’articolo, scoprii che avevo interrotto la cronaca sull’1-1. Lasciai passare quindici giorni: nessuno aveva protestato, nessuno se n’era accorto. Allora andai da Ghirelli, confessai l’errore e gli dissi che era la dimostrazione che le cronache delle partite non le leggeva più nessuno”.
“Le note-spese gonfiate? Legittima difesa. I giornalisti guadagnavano poco allora, niente adesso”.
“Una delle specialità più comuni? Scrivere prefazioni a libri senza leggerli”.
“Emilio De Martino era un mio idolo. Lo incontravo al Giro d’Italia. Osavo augurargli: ‘Buona tappa, direttore’. Lui mi rispondeva sempre: ‘Grazie, caro, ti leggo’. Non era vero. Non sapeva neppure come mi chiamassi”.
“Stimavo Beppe Viola, ma lo conoscevo pochissimo, ed è per questo che nel libro non c’è. Lui si descriveva così: ‘Sono solo uno che ha arricchito i bookmaker’”.
“Quando le biciclette cominciavano a costare milioni di lire, poi migliaia di euro, Fiorenzo Magni mi disse che prima si vendevano le bici per comprarsi le auto, adesso si vendono le auto per comprarsi le bici”.
“A proposito di ciclismo. Giro d’Italia 1961, partenza dalla Sicilia, trasferimento da Genova a Marsala su una motonave Costa. A cena, un cameriere propone formaggi, Adriano Durante chiede qualcosa di locale. Locale in mezzo al Mediterraneo”.
“E a proposito di Giro d’Italia. Tappa a San Pellegrino Terme. Rientro alticcio in albergo con Giorgio Raineri. Nel corridoio, fuori dalle porte, le scarpe dei colleghi. Ci guardiamo, poi entriamo in azione. Il Brembo mugghiava. Prendiamo le scarpe, una per paio, e le lanciamo nel fiume. Reato confessato solo una ventina di anni dopo”.
“Nuoto. Da giovane perdevo da Bud Spencer, ma lui era un campione. Adesso ho un problema alla scaletta: al terzo gradino chiedo al malcapitato se mi dà una mano per tirarmi su”.
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