Il ciclismo ha un dio. E’ il dio - scritto per pudore con la minuscola - del ciclismo. Quello che dà voce a strade mute e silenziose, cielo a tornanti e valichi, orizzonti a vialoni e rettilinei, colori a campagne, popolo ai marciapiedi. Quello che spinge i corridori in salita, li guida in discesa, li incoraggia quando fuggono, li conforta quando inseguono, li tranquillizza alla partenza, li accompagna all’arrivo, li sostiene quando sono in riserva. Quello che trova risposte quando si chiedono ma-chi-me-l’ha-fatto-fare. Quello che li protegge in volata, gomito a gomito, anche gomito fra le costole, a sessanta all’ora.
Il ciclismo non può essere ateo. Il dio del ciclismo fa quello che può, non è così onnipotente e onnipresente come si possa credere, non è così maiuscolo come si voglia immaginare. Con il moltiplicarsi del calendario, dà un occhio di qua, mette una pezza di là, spesso compie miracoli imprevisti e ignorati, dati per scontati, come se certe velocità siano sempre accettabili, come se certi rischi siano sempre praticabili, come se certi pericoli siano sempre azzardabili. Finché anche il dio del ciclismo è costretto ad arrendersi.
“Ruote maledette” di Remo Gandolfi (Urbone Publishing, 156 pagine, 12 euro, con prefazione di Luca Gregorio) è un libro – a suo modo - religioso. Non si parla di Dio né del dio del ciclismo, ma qui si contemplano 13 casi (14 con quello di Marco Pantani ospitato nella versione di Walter Panero) in cui il dio del ciclismo era assente, carente, vacante, miope o lento, o già impegnato altrove, e proprio non ce l’ha fatta. E 14 corridori, capitani o gregari, velocisti o scalatori, puliti o dopati, ci hanno lasciato la pelle.
Jean-Pierre Monseré, stampato sull’auto di una donna in ritardo per il suo appuntamento con il commercialista. Fabio Casartelli, slittato contro un paracarro, in un bosco, nei Pirenei. E Juan Manuel Santisteban, che invece finisce, misteriosamente, contro un guard-rail. José Maria Jimenez, che lotta contro un fantasma, addosso, dentro, un buco nero, tra paura e ansia, tra vuoto e nulla. E Frank Vandenbroucke, che lotta contro se stesso, un uomo a più dimensioni, una questione di limiti e confini, anche di frontiere, fra la realtà e le realtà irreali e chimiche, seducenti e stupefacenti. Tom Simpson, sciolto al sole del Ventoux, sciolto anche fra amfetamine e alcol. Stan Ockers, che muore sulla pista di casa. Luis Ocaña, che per morire deve ricorrere a un colpo di pistola alla testa. Denis Zanette, che muore per motivi mai chiariti fino in fondo, come se ci debba essere sempre una spiegazione, una volontà, una diagnosi. Joaquim Agostinho, coinvolto in corsa in una ecatombe provocata da cani randagi, lui che era sopravvissuto alle guerre con la legione straniera. Xavier Tondo, graziato da incidenti in bici, ma schiacciato dalla portiera dell’auto e la saracinesca del garage. Antonio Martin Velasco, investito da un camion. E infine Michele Scarponi, che ha chiuso le ali una mattina di due anni fa, vicino a casa, contro un furgone, guidato da un amico, cieco in quell’istante.
Dio, il dio del ciclismo, dov’era in quei momenti? Gandolfi non ha risposte. Ha però passione, amore, fede. Nel ciclismo, nello sport, nella vita. Queste sue storie, fra dati certi, pensieri romanzati, dialoghi inventati, insegnano a volerci bene, e forse anche a credere. Magari frenando, almeno un po’, quando la vita corre troppo veloce, frenetica, psichedelica, fino a precipitare.
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