Appena cominciato e già così strano. Questo 2019 passa alla storia, subito all’inizio, come il primo anno in cui non sentiremo le litanie strazianti di quelli che al Giro non viene nessuno, al Giro mancano i campioni stranieri, il Giro è una corsa provinciale per soli italiani.
Capisco che questa brava gente dovrà inventarsi un’altra musica e incidere un altro disco, ma purtroppo c’è poco da fare: per quanto lo si possa rivoltare come un calzino, per quanto gli si voglia fare le pulci, il Giro 2019 sarà un Giro molto internazionale, molto prestigioso, molto ben frequentato. Voglio spararla grossa, convinto di non andare molto lontano dalla verità: da molti anni non ne avevamo uno così completo e affollato.
Manca ancora una primavera e molti dettagli possono cambiare, ma nel complesso la certezza c’è già: il meglio (quasi tutto) sarà qui. Persino la Sky, l’ultima Sky, impegnatissima a lasciare il ciclismo (come marchio, non come squadra) con l’ennesimo Tour, comunque manderà in Italia un bel nome. Pare Bernal, e non dico altro: a occhio e croce è il miglior talento di domani. Se verrà in Italia per testarsi fino in fondo da capitano, ancora una volta il Giro avrà il compito romantico di fare da giudice severo e imparziale sull’entità e sulla legittimità di tante speranze. Se Bernal uscirà bene dal Giro, Bernal si avvierà a una luminosa carriera. Se andrà in frantumi come cristallo pregiato ma fragilino, molte incognite graveranno sul suo futuro. In ogni caso, sarà la sua prova verità. E tutti noi saremo lì curiosi a fargli la radiografia.
Ma a parte questo capitolo carico di fascino particolare, resta comunque sul piedestallo un tale monumento al vip da lasciare incantati. L’Italia avrà il suo meglio, cioè Nibali, ma anche Aru, che voglio aggiungere a tutti i costi perché non possiamo considerarlo perso alla sua età. La Spagna avrà Landa e Valverde. Avremo il vero re universale delle grandi corse a tappe, quello sempre in cima degli ultimissimi giri, quel Tom Dumoulin che in fondo è nato qui: stavolta, con sessanta chilometri a cronometro, gli hanno pure messo sotto al sedere una catapulta micidiale. Anche per questo, avremo con ancora più onore (per loro) gli Yates e gli Zakarin, corridori molto forti che però sanno di andare ad handicap proprio per via della crono: eppure vengono lo stesso. Da questo punto di vista, occhio invece a Roglic, che questo lato debole non ha di certo, e che a sua volta ha annunciato per tempo di volersi consacrare al Giro.
Siamo ancora alla conta iniziale. Altri si aggiungeranno, altri dovranno cambiare i programmi in corsa. Ma resta in piedi a pieno titolo la sensazione che la corsa più dura del mondo nel paese più bello del mondo potrà stavolta aggiungere al suo slogan una cosa del tipo frequentata dalla gente più aristocratica del mondo. Quest’ultimo, del cast, degli stranieri, era sempre il peccato originale utilizzato dagli italioti (non mi viene la rima) per ridicolizzare il Giro e guardare dal basso il Tour, con inguaribile complesso di inferiorità, come se poi le corse non fossero belle ciascuna a suo modo, come se ad esempio l’anno scorso il duello tra Froome e Dumoulin fosse una mano di scopa tra due arteriosclerotici. Ma a questo punto cade anche l’ultimo pregiudizio: senza se e senza ma, sarà un Giro autorevole e rispettabile, con tutti i sacri crismi della grande corsa di livello mondiale. Nessuno potrà più dire e scrivere, alla fine, ha vinto Tizio perché ha corso contro dei mortaccioni. Chi lo vincerà, sarà davvero campione. E chi lo perderà, avrà perso comunque da un campione. E quelli che mancheranno? Non mancheranno a nessuno.
da tuttoBICI di gennaio