Nati a distanza di una settimana e di una cinquantina di chilometri. Uno lombardo, l’altro piemontese. Uno di pianura, l’altro di collina. Uno di fiume, l’altro di vento. Uno tracagnotto, l’altro affusolato. Uno protagonista, l’altro pure, suo malgrado. La strada li aveva abbracciati. Si erano conosciuti e si erano amati. Uno è Gianni Brera, l’altro Fausto Coppi. Mercoledì 22 maggio, nell’undicesima tappa, la Carpi-Novi Ligure passando per San Zenone al Po dove uno è nato e arrivando dove l’altro abitava, il Giro d’Italia 2019 li ritroverà, li riunirà, li ricorderà. Due fuoriclasse, due giganti. In 206 chilometri cicloletterari. Nel centenario della loro nascita.
Brera era il figlio di uno che con le forbici ci sapeva fare, tanto da fare un po’ il sarto e un po’ il barbiere, Coppi era il figlio di un contadino. Brera fu spedito a studiare a Milano, Coppi frequentò una classe unica, che riuniva tutti i bambini del borgo. Brera cominciò giocando a pallone, Coppi non pensava ad altro che alla bicicletta. Brera si laureò in Scienze politiche, Coppi divenne professore nell’università della strada, e anche della pista. Dopo la Seconda guerra mondiale, Brera entrò alla “Gazzetta dello Sport” per scrivere di atletica, Coppi nella Bianchi per entrare nella storia.
Nel 1949 Brera fu inviato dal giornale al Tour de France e rimase folgorato da Coppi, che aveva vinto il Giro e che avrebbe conquistato anche il Tour. Sulla Rosea del 27 luglio Brera scrisse di Coppi, attaccando: “Così l’ha fatto il buon Dio ché se tu lo vedi all’impiedi, uomo come tutti gli altri, costretto a mantenersi umilmente in equilibrio, la tua presunzione non se ne adonta. Alto di persona, ma non allampanato, per il solo benigno fatto di non avere collo. Una fronte a dir vero spaziosa, ma così tormentata da bozze e asimmetrica da denunziare d’acchito in lui un attenuato vigore di razza e un penoso travaglio di sviluppo. Il naso lungo e nervoso, quasi a conferire sorniona sottigliezza al volto già di per sé affilato. Due occhi grandi, neri, lucidi che è pur segno di antica nobiltà razziale, di secolare tormento evolutivo. E poi le guance incavate e la bocca da roditore astuto, e quel labbro superiore che così nel sorriso come nel cruccio sembra arricciarsi, mentre una piega ironica (la timidezza, l’incredulità si salvano forse nell’ironia?) gli conturba il mento, sottile e breve”.
Ancora Brera su Coppi, concludendo: “Allorché agile procede sul piano, l’abusata immagine della locomotiva che avanza per alternarsi di bielle in rotazione ti viene imposta da Coppi. Allorché, dondolando ritmicamente sui pedali, si attacca ad una salita e tu vedi Coppi al di là di ogni umano limite rinnovare l’antica bellezza dei miti più non osi guardarlo se solo pensi che egli è, come te, uomo. Più non osi per non sentirti a petto suo troppo meschino. E allora pensi spontaneo esaltarlo come un fenomeno unico dello sport: ed esaltarti in lui che, grandissimo e ineguagliabile campione, è almeno, come te, italiano”.
Brera e Coppi si vedevano alle corse, uno con carta e penna, sigaretta o pipa, l’altro con la bici, si vedevano a caccia, tutti e due con gli stivali e il fucile a tracolla. Finché Coppi lasciò il gruppo. Brera nell’ultima pagina di “Coppi e il diavolo”: “Quando ha capito che sopravvivere a se stesso non era impossibile ma certo sconveniente, per uno come lui, con infinita tristezza ha deciso di abdicare e lasciarci. Il destino beffardo gli ha consentito di evitare il suicidio offrendogli una scappatoia impensata. E i medici, che del destino sono umili strumenti, si sono diligentemente prestati all’esecuzione”. Era la mattina del 2 gennaio 1960.
Il destino fu beffardo anche per Brera: un incidente d’auto, lui da passeggero, dopo una “pacciada” come si deve. Era la notte fra il 18 e il 19 dicembre 1992. E nebbia, zero.
Se sei giá nostro utente esegui il login altrimenti registrati.