Era il bello del ciclismo. Bello come un attore, un attore del cinema o anche dei fotoromanzi, così bello che non sembrava neppure un corridore ciclista, semmai un corridore motociclista o un corridore automobilista, di quelli che hanno un motore sotto e non un motore dentro. Era il Mario Cipollini degli anni Cinquanta. E si sussurrava che più delle fughe la sua specialità fossero le scappatelle. Perfino durante il Giro d’Italia.
Silvano Ciampi, dall’alto dei suoi quasi 87 anni (li compirà il 22 febbraio), regala ricordi e confidenze. La famiglia (“Babbo meccanico, tornitore, capofficina, mamma, tre figli, io il secondo. A Maresca, sulle colline pistoiesi”), il primo amore (“Per le bici e il ciclismo, tra gli amici ero il più forte nelle ‘girate’”), la prima bici (“Una Malaguti di Bologna, acquistata da un meccanico biciclettaio, prezzo 59 mila lire, avevo circa 16 anni”), la prima squadra (“L’Unione ciclistica Pistoiese”), la prima corsa (“Non avevo neanche le scarpe, si fece il giro di San Baronto, il gruppo andava a spasso, mi dissi che se avessi sempre corso con quelli le avrei vinte tutte, poi però sulla salita di Vinci rimasi da solo, ma dietro, in fondo, e mi ritirai”), la prima vittoria (“In volata, in un paesino vicino a Pescia”), la prima convinzione (“Che ero forte in volata e debole in salita”).
Ciampi, che il primo anno conquistò due vittorie,il secondo anno sette, poi fece il militare e al ritorno era fuori forma, una vittoria, poi altre sette, tra cui il Gran premio Industria Cuoio e Pelli, che in Toscana è una specie di Mondiale, e per la seconda volta la Firenze-Viareggio, “finché mi giunse a casa una letterina della Faema, che era stata in Toscana ad allenarsi. Non mi pareva vero. Era quello che cercavo”. Ciampi, per cui il ciclismo si trasformò da passione a professione: “Avevo fatto la terza media. Ci fosse stata almeno una materia che mi appassionasse, macché. Poi qualche lavoretto, come quello da garzone di fornaio, ma mi dovevo alzare alle tre di notte. E a 15 anni il primo libretto di lavoro. Meglio il ciclismo, non c’erano dubbi, anche se il primo stipendio era il minimo sindacale”. Ciampi, che invece andava al massimo: “Vinsi subito otto corse, ero il plurivittorioso del 1957. Giro del Piemonte, Trofeo Matteotti, Gran premio Industria e Commercio a Prato… Sempre in volata, tranne una. Giro di Sicilia: la prima tappa finiva sull’Etna, ci arrivai ultimo, stecchito, il giorno dopo entrai in una fuga a sette, c’erano anche Alfredo Martini e Luciano Pezzi, l’arrivo ancora in salita, a Ragusa, stavo per mollare, domandai a uno spettatore quanto mancasse, mi rispose 500 metri, ma davvero?, e scattai, e li piantai, e vinsi, per poco, per pochissimo, ma da solo”.
Ciampi che fece da gregario a Charly Gaul (“Giro d’Italia 1957, tappa del Bondone, Gaul si fermò a fare la pipì, o forse la popò, Tognaccini lanciò un urlo di guerra, ‘Gaul ha forato!’, Bobet e Nencini lanciarono l’attacco, dietro ci organizzammo, ma il distacco rimaneva quello, non si guadagnava e non si perdeva, ai piedi del Bondone mollai, il guaio è che mollò anche Gaul, non aveva mangiato, prese una scoppola e perse il Giro”), finché un giorno disse basta (“Giro d’Italia 1958, tappa di Roma, Gaul stava in coda al gruppo, poi mi ordinava di portarlo in testa, lo feci quattro volte, alla quinta mi fermai, salii sul camion-scopa e mi ritirai”), che corse per Diego Ronchini (“Anche al campionato italiano del 1959, fuga a quattro con Guido Carlesi e Ercole Baldini”), che smise anche se non mancavano proposte (“Mi avevano cercato quelli della Filotex, ma offrivano poco, quei soldi li avrei fatti anche standomene a casa”), che ebbe Learco Guerra come direttore sportivo (“Ci mandava in Belgio, diceva che fossero kermesse, invece erano corse vere, e i belgi andavano alla morte”) e Gino Bartali come general manager (“E io direttore sportivo, alla Eliolona, si facevano delle grandi bisbocce, delle grandi baracche, lui era buono e compagnone”). Ciampi, che il giorno più luminoso lo ha vissuto nel Giro dell’Appennino (“Vinsi nonostante ci fosse la Bocchetta, una salita che mette paura anche in discesa”) e i giorni più neri alla Parigi-Roubaix (“La prima volta spaccai il telaio, la seconda ero con i primi quando mi comandarono di aspettare Carlesi che aveva forato, lo aspettai e lo riportai sui primi, ma a quel punto forai io, arrivederci e grazie”).
Ecco il bello del ciclismo: “Ma il ciclismo era più bello ai miei tempi. Adesso è sempre la solita storia, parte una fuga, viene ripresa, e c’è la volata. Una noia”.
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