Non c’è bisogno di troppi paragoni per capire che il Mondiale di Innsbruck è tra i più duri degli ultimi quarant’anni: percorsi così si sono visti solo a Sallanches in Francia (1980, vittoria di Hinault) e a Duitama in Colombia (1995, successo di Olano su Indurain e Pantani). Cinquemila metri di dislivello distribuiti su 260 chilometri, un circuito con una salita di 8 chilometri da ripetere sette volte, lo strappo che a otto chilometri dall’arrivo tocca pendenze da mulattiera (25 per cento) tanto da meritarsi il simpatico titolo di ‘Hell’ o Holl a seconda delle lingue, in ogni caso l’inferno: basta questo a descrivere quale sofferenza attenda il 30 settembre i pretendenti all’iride. Che anche in assenza di Geraint Thomas e Chris Froome, vincitori di Tour e Giro, restano abbondanti, oltre che ottimi: ecco le dieci facce candidate a salire in cima al podio.
Julian Alaphilippe. Vince perché è quello che quest’anno l’ha fatto più di tutti (dodici successi), perché è predisposto per le grandi corse in linea, perché c’è andato vicino un anno fa. E’ nel momento della carriera in cui gli riesce tutto: maturando ha guadagnato in sicurezza, deve solo non abusarne.
Michal Kwiatkowski. Vince perché è tutto l’anno che va forte, perché al mondiale lo ha già fatto, perché fa parte della ristretta cerchia dei vincitori di classiche che contano. Non si è negato nulla, correndo le due crono per team e individuale, dove ha chiuso quarto: se le pile reggono, occhio.
Gianni Moscon. Vince perché è l’italiano che sta meglio, perché ha l’occasione per giocare da punta e non da mediano, perché vivendo a Innsbruck conosce meglio di tutti il percorso. Cinque settimane di stop per il gestaccio al Tour gli hanno tolto fondo: se compensa con la rabbia che ha dentro, se la gioca.
Vincenzo Nibali. Vince perché ama i tracciati duri, perché fra Olimpiade e Tour è in credito con la buona sorte, perché è tra i pochi che sa come si fa quando le distanze sono da grande classica. Anche se non al top, è pronto oltre che sereno: l’ispirazione può dargli ciò che gli manca, la Sanremo insegna.
Thibaut Pinot. Vince perché ama le salite, perché alla Vuelta si è risollevato alla grande, perché a forza di girarci intorno prima o poi un traguardo importante lo centra. Nella Francia che dovrà far convivere troppi galletti, la prima fatica sarà andar d’accordo con Alaphilippe e Bardet: nel caso, meglio marcarlo.
Primo Roglic. Vince perché da due mesi ha in testa soltanto a questa corsa, perchè non teme i salitoni, perché al Tour ha confermato di esser pronto per un grande risultato. Per non buttar via energie preziose, ha persino rinunciato alla crono: spesso si vince indovinando la scelta di tempo.
Peter Sagan. Vince perché ha conquistato gli ultimi tre mondiali, perché ama le missioni impossibili, perché negli ultimi due mesi si è allenato pensando a Innsbruck. Dicono tutti che il finale sia troppo duro per il folletto slovacco: il modo migliore per dargli una motivazione in più.
Rigoberto Uran. Vince perché si presenta tirato al punto giusto, perché è uomo di fondo, perché in una grande classica il muso davanti lo ha piazzato spesso. Fra quelli che hanno corso la Vuelta per allenarsi è stato il più bravo a far classifica: su un circuito da colombiani, è il colombiano più in palla.
Adam & Simon Yates. Vincono perché sullo strappo finale possono fare danni, perché sono bravi a programmarsi, perché da bravi gemelli uno è alleato dell’altro. Dei due, Simon è quello che per vincere la Vuelta ha speso più energie: aiutandolo, Adam ha finito per fare il miglior allenamento per il mondiale.
Alejandro Valverde. Vince perché a 38 anni non gli restano tante altre occasioni, perché il percorso sembra averlo disegnato lui, perché ha un palmares che parla da solo. Per quanto apparso in calo nel finale della Vuelta, resta tra i pochi che sanno cosa diventi la corsa dal chilometro 220 in poi.