Il prossimo De Marchi nasce il 27 ottobre, «Anna sta meglio di me, lei è davvero super, ma anche per me è un bellissimo periodo, tante cose si stanno incastrando». Alessandro, il De Marchi che conosciamo già, quello che non molla mai, quello che non tradisce, è l’unico azzurro a correre la cronometro (oggi, e con lui c’è anche Fabio Felline) e pure la corsa su strada, domenica. E’ il nostro superman. «Magari in tanti non se ne sono accorti, ma quest’anno ho iniziato a investire tempo in questa specialità, anche grazie a Marco Pinotti, che è una risorsa per questo settore e mi ha seguito tantissimo. La crono la facevo anche da ragazzo, così mi sono rimesso sotto perché avevo bisogno di nuovi stimoli».
Non si direbbe: lei è famoso perché non molla mai.
«Non so se è una qualità che ho ereditato dai miei. Penso che sia più una dote che è cresciuta con il ciclismo, quando correvo al Team Friuli, da dilettante: con Roberto Bressan ci siamo sempre detti che con tutta la fatica che si fa bisogna tentare fino all’ultimo».
Che cosa si aspetta da questo mondiale?
«A livello personale cerco conferme del livello che ho raggiunto. Finalmente un po’ di cose si sono sistemate: quelli come me sono bravi, lo dicono tutti, ma se ogni tanto non vinci diventa dura. Il successo alla Vuelta è stato importante».
Quest’anno non siamo favoriti, giusto?
«Purtroppo no, ma in fondo potrebbe essere anche un vantaggio. Ma è comunque giusto dare fiducia a Nibali perché ha dimostrato di essere quello che regge certe responsabilità, lui è il faro del nostro movimento. Poi è perfetto che Moscon abbia questa condizione, e alla fine ci siamo noi sei, tutti sullo stesso piano, pronti a sacrificarci per questi due uomini. Nessuno di noi può pensare di avere un ruolo diverso, nè io, nè Caruso nè altri: non abbiamo mai dimostrato di poter reggere una responsabilità del genere. Poi bisogna vedere quello che succede in corsa».
Chi le fa paura?
«Come squadra i francesi sulla carta sono i più pericolosi: Alaphilippe e Pinot soprattutto. Poi direi i fratelli Yates, Roglic, qualche spagnolo anche se Valverde a fine Vuelta era un po’ cotto. Fra i colombiani forse Uran. Credo che sarà una gara da singoli».
In tutto questo Sagan che ruolo ha?
«Lui fa paura sempre. Alla Vuelta l’ho visto pedalare molto bene in salita, sull’ultima era rimasto con i migliori trenta corridori, non è proprio da scartare, anzi».
E’ il suo terzo mondiale, dopo Ponferrada e Bergen. Il ricordo più bello?
«A Ponferrada debuttavo e fu particolare: per un attimo piccolo piccolo accarezzai l’idea di prendere una medaglia. Io non ho mai vinto una classica, sulla carta non posso essere il favorito, ma in sette ore di corsa succedono tante cose, se azzecchi il momento giusto...».
Questo mondiale è molto vicino a casa per lei. Avrà molti tifosi in arrivo dal Friuli?
«Qualcuno si muoverà per domenica. Forse anche Anna, non c’è verso di fermarla».
Il suo vino, il Rosso di Buja, come sta andando?
«Abbastanza bene, in questo periodo si lavora un po’ in silenzio ma stiamo per lanciare una seconda etichetta. Dovrebbe nascere assieme a mio figlio. Che ancora non ha un nome: ci eravamo preparati per la femmina».
Cosa sta leggendo in questi giorni?
«Ho letto Il cielo sopra l’Everest, mi ha fatto compagnia nelle sere della Vuelta».
Quando si allena ascolta musica?
«Sì, ho sempre gli auricolari. Vado a giornate, anzi a periodi. Ultimamente sono tornato alla musica da discoteca, nella mia testa è la musica che va con la crono. Quando corro su strada preferisco i grandi classici: Queen, Pink Floyd. Ai massaggi in genere ascolto il reggae, Bob Marley per lo più».
Quando ha vinto in Spagna ha baciato il suo tatuaggio maori.
«Quando sono andato a trovare mio fratello in Nuova Zelanda mi sono avvicinato a quella cultura, una cultura molto ricca, legata a cose semplici come la natura e l’ambiente. Non posso dire di essere un esperto, ma conosco qualcosa dei loro simboli, che hanno significati molto precisi. Nel mio tatuaggio c’è la tartaruga, che significa casa, patria, il posto in cui sei nato. La tartaruga torna dove in quel posto quando deve accoppiarsi e quando è ora di morire».
Qual è il posto più bello dove l’ha portata la sua bicicletta?
«Mia moglie mi prende sempre in giro perché tutte le volte che la chiamo le dico: oggi sono stato in un posto bellissimo, dobbiamo tornarci assieme. E poi non andiamo mai da nessuna parte. Forse il posto che preferisco al mondo è il mio Friuli».
Il ciclismo è uno sport faticoso, e purtroppo anche pericoloso. Perché un ragazzo dovrebbe correre in bici?
«Perché ti insegna che devi contare sempre e soltanto sulle tue gambe. Come messaggio non è male, semplice ma profondo».
Le piacerebbe che un giorno suo figlio facesse il corridore?
«Ovviamente sì. Ma vorrei che ci arrivasse da solo, dovrò essere bravo a fargli vedere le cose belle di questo sport».
Scelga una corsa, una sola.
«Ce l’ho. E’ una corsa che non c’entra niente con me, ma mi è sempre piaciuta: la Sanremo. Nibali se l’è inventata proprio bene».
Ci vorrebbe un’altra magìa.
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