Il giovedì chiese di iscriversi alla società, il sabato gli dettero una bicicletta, la domenica corse. “Com’è andata?”, gli domandò la mamma, curiosa. “Settimo”, rispose lui, orgoglioso. “E quanti eravate”, incalzò la mamma, sospettosa. “Sette”, dichiarò lui, onesto.
Mirko Allegrini ha sempre visto il bicchiere mezzo pieno. Non rimpianti, ma ringraziamenti. Non delusioni, ma soddisfazioni. Non sconfitte, ma esperienze. Non sacrifici, ma insegnamenti. Quattro anni da professionista, dal 2005 al 2008, i primi due con Bruno Reverberi, gli altri due con Marino Basso. E una certezza, anzi, due: “Ho sempre dato il massimo. E più di così non avrei potuto fare”.
Veronese (“Ma di Negrar”), primo sport il calcio (“Come tutti”), secondo sport il ciclismo (“Per due anni mi allenavo e giocavo a calcio, e la domenica correvo in bici”), prima bici quella di un vicino di casa (“Pedali con le gabbiette e scarpe da tennis”), categoria giovanissimi (“Ma allora si chiamava A1”), prima vittoria da G6 (“A Marmirolo, vicino a Mantova, in una volata di gruppo, e il primo a sorprendersi fui proprio io, non pensavo di essere veloce”), da dilettante in grandi squadre (“Dalla Trevigiani alla Zalf, era la mia dimensione, imparai a correre, e spesso e volentieri se non sempre correvo davanti, in testa al gruppo, a tirare, i vecchi sostenevano che fosse la migliore maniera per imparare e intanto fare fiato”).
Poi l’esordio tra i professionisti: “Coninciai al Tour Down Under, proseguii al Giro di Malesia, la mia prima corsa in Italia fu la Milano-Sanremo, quindi la Tirreno-Adriatico. Mi sembrava di sognare. E continuai a sognare. L’anno dopo, alla Milano-Sanremo, dopo una trentina di chilometri fatti pancia a terra, si sganciarono in quattro o cinque, io da solo rientrai su di loro, più altri due o tre nella mia scia, finalmente la fuga buona, scollinai primo sul Berta, fummo ripresi ai piedi della Cipressa, in tutto 240 chilometri al vento ai 46 all’ora”. Nessuna vittoria, ma un secondo posto in una tappa del Giro di Normandia: “Fuga a due con un russo. Lui mi propose di lasciargli la tappa, ché tanto io avrei preso la maglia gialla. Gli risposi di no. Lui smise di tirare. Così rischiavo non solo di perdere il primo posto, ma anche il secondo e la maglia. Accettai. Primo lui, secondo io. Persi la maglia quando, in una tappa di salita, fui attaccato proprio da quel russo, e finii sesto. E un quarto posto al Grand Prix Finistere, sempre in Francia: freddo e acqua, percorso ondulato, la fuga buona nacque a una cinquantina di chilometri dal traguardo, selezione naturale e arrivo a sfinimento, uno alla volta”.
Allegrini amava la pista (“Ce l’avevo quasi a casa, a Pescantina, un anello di cemento, 341 metri all’aperto, e il dietro moto con Sergio Bianchetto”), ma non gliela facevano fare (“Chi va forte in pista, giuravano, va piano in salita. Eppure Wiggins, Thomas e Yates, per dire solo tre vincitori di grandi giri, prima erano campioni in pista”). Allegrini ha scoperto la fame (“E dai russi agli ucraini, c’era gente che aveva più fame di me, di noi”) e la fatica (“La salita più dura in Germania, fuori sella con il 39x25, arrancavo a 15 all’ora e Ullrich mi passò come se fosse su una moto”). Allegrini ha incontrato campioni (“Un giorno superai Nibali, in uno sprint in salita, all’ultimo metro, e lui non smetteva di chiedermi come avessi fatto, voleva capire, voleva sapere”), e certe volte li ha incontrati ancora (“Giro di Toscana 2007, fuga a cinque, Nibali scattò a un chilometro dalla fine della salita, eravamo certi di riprenderlo in discesa, invece lui incrementò il vantaggio”).
Dopo una scuola biennale di massofisioterapia a Boario e al terzo dei tre anni di scuola di specializzazione a Foligno, Allegrini ha aperto il Centro Kymor (quasi un anagramma di Mirko) a Ospedaletto di Pescantina (Verona): tre massofisioterapisti, un osteopata, un fisiatra e un nutrizionista. “Chi viene dallo sport, non solo ciclismo ma anche triathlon, calcio, equitazione e scherma, chi da altre realtà. Il corpo umano è una macchina perfetta, gestita da una centralina che ne decide la qualità, la resistenza, la sopravvivenza. Noi siamo testa e cuore, siamo corpo e anima, siamo emozioni e sensazioni, siamo il risultato dei nostri pensieri. Mi piace il rapporto con l’atleta o il paziente, capire il loro stato d’animo, trovare l’empatia, arrivare al punto in cui se ne accorgono, si fidano e si affidano. E’ come il ciclismo: si impara strada facendo. E poi leggendo, studiando, ascoltando, sentendo, osservando”.
Sposato (con Desirè) e con una figlia (Stella) e un’altra in arrivo (nome da decidere), Allegrini ha rinunciato alla bici da strada, ma non alla mountain bike. Due anni fa l’ultimo fuoco: “Da casa a Santiago di Compostela, 2400 km in 12 giorni, fino a Ventimiglia con il mio amico Massimo, poi da solo. Era una voglia, si è trasformata in un’ispirazione, è diventato un viaggio. Anche dentro di me”.
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