A Letizia Paternoster basta una medaglia di bronzo per portarci sulla luna. Una medaglia di bronzo nell’Omnium, contro avversarie più vecchie, più esperte e più grandi e grosse di lei. Lei che ha appena compiuto diciannove anni, che ha una voce tenera di ragazza, e pesa come una gamba delle altre. Wild e Archibald saranno pure di un’altra categoria (sì, lo sono, e fanno corsa per conto loro anche nell’ultima sfida, la corsa a punti), ma Letizia corre quasi con saggezza, con una personalità inaudita, come se il diploma di ragioniera preso l’anno scorso a Trento l’avesse applicato a tutti questi giri di pista.
A molti correre in velodromo non piace, si sentono criceti da laboratorio. Per lei invece è stato un amore a prima vista. Da junior ha vinto 5 titoli mondiali in due anni, e adesso che corre fra le grandi non si è fermata. Argento con la squadra nell’inseguimento, Letizia porta a casa anche questo bronzo che vale davvero oro nella disciplina che ha dato il successo olimpico a Elia Viviani, il patriarca di questa nuova generazione di azzurri da pista. «E’ tanto per me, sono troppo felice. Quest’inverno ci avrei messo la firma, il ct Salvoldi mi ha dato la possibilità di correre questa specialità che adoro. Ma pensavo di pagare tanto il salto di categoria. Invece... Non ho parole». Un bronzo che pesa moltissimo, e che la proietta in un futuro grande. E noi con lei. «Faccio quello che amo fare, correre in bici per me è qualcosa di magnifico. Tutto quello che arriva mi rende felice. Dedico questa medaglia al mio allenatore, Stefano, che mi è sempre stato vicino fin da piccola. E a tutte le persone che ci mettono il cuore e mi aiutano a realizzare tutti i miei sogni».
Al primo anno fra le grandi, il risultato di Letizia ha un valore ancora più profondo. Trentina di Revò, paese di mille abitanti in val di Non, «abbiamo le mele, il lago di Santa Giustina e soprattutto due campanili», Letizia ha lunghi capelli color miele e occhi da bambi. «Modella io? Non scherziamo. Ci sono persone molto più belle di me. Io vado forte in bicicletta, per adesso».
Per metà è australiana: papà Paul è di Melbourne, è venuto in Italia a lavorare nel latte e a coltivare mele quando si è immanorato di Maria, impiegata comunale, mamma di Matteo e della campionessa di ciclismo, la piccola di casa. «Papà è amico di Fondriest, ma i miei non volevano che corressi in bici. Hanno provato con l’atletica, con lo sci di fondo. Ma io ero innamorata della bici. Ho fatto mountain bike, BMX, downhill».
Quando era esordiente un giorno ha chiesto a papà se la portava a provare in pista, a Mori. «Mi è piaciuta subito, è qualcosa che non so spiegare». E’ stato un amore ricambiato. «Si può dire che sia nata a cavallo della bici. Pedalavo prima ancora di camminare. I miei mi raccontano che a due anni andavo a cercare le rotelline. E quando le altre bambine venivano a cercarmi per giocare, io le seguivo in bicicletta». E non ha ancora smesso.
«Le Olimpiadi di Tokyo me le sono segnate sull’agenda: arrivare pronta, c'è scritto. Le Olimpiadi sono il sogno, le ho sempre guardate». Il ciclismo lo andava a cercare su tutti i canali, «anche quando ero piccolissima, mi piaceva Contador». E adesso se deve un nome solo è facilissimo, «Peter Sagan, la prima volta l'ho incontrato mentre si stava allenando, ai Mondiali. Aveva la maglia iridata». E cosa hai fatto? «Gli sono andata dietro».
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