Premessa. L’articolo che segue contiene una massa sicuramente spropositata di riferimenti personali, alcuni dei quali peraltro già rifilati ai pazienti lettori in occasioni passate. Chi fosse interessato a questi riferimenti e alle loro diramazioni, e dunque volutamente volesse continuare nella lettura, è stato avvertito (segnalazioni di questo tipo appaiono spesso prima dell’inizio dei film porno, vedere per credere).
Dunque: in 65 (sessantacinqueeeee, aiuto) anni di giornalismo, cominciato quando non ero ancora maggiorenne, ho seguito 25 Olimpiadi (record del mondo), 28 Giri d’Italia, 15 Tour de France, 6 Mondiali di calcio, innumerevoli Mondiali di atletica, sci, ciclismo strada e pista si capisce, nuoto, sci, automobilismo nel senso di Formula 1, boxe, tennis di Coppa Davis e persino un Mondiale di ping pong. Bypasso una infinità di classiche della bicicletta e di campionati europei di vari sport. Aggiungo il reportage da Cape Canaveral e Houston nel 1969 per la conquista della Luna con l’Apollo 11, impresa spacciata da me su Tuttosport anche come primato mondiale di salto in alto, e un viaggio in Cina nel 1966, quando gli italiani non potevano andarci per mancanza di relazioni fra i due paesi (riuscii ad avere una sorta di carta di identità francese). Ci aggiungo, extrasport, un Biafra subito dopo la guerra civile con la Nigeria, occasione/pretesto sportivo i Giochi africani, ed alcuni festival di Sanremo da cronista di gossip e cose così. Sino alla noia magari stupidamente snob e alla paranoia.
E adesso sono felice e garrulo nell’età della memoria fortunatamente buona, degli impegni sfortunatamente ridotti e però delle sollecitazioni in aumento per raccontare (talora mi paghicchiano anche, ne sono persino scandalizzato).
Bene, mi accorgo di due cose (fra tante altre, ma dico di cose specifiche per questo articolo): 1) che quando racconto di ciclismo mi stanno ad ascoltare con attenzione e partecipazione, mi fanno domande anche attinenti e pazienza se spesso intriganti (arrivano specialmente dai non ciclofili); 2) che in fondo di tutto quello che non è ciclismo, che non nasce dal ciclismo o comunque con esso si collega, mica ho tanto da ricordare, da raccontare, da proporre, da imporre all’attenzione o perlomeno alla curiosità.
Attenzione, non c’entra delle mie “vittime” l’età, non c’entra neppure il sesso, o il lavoro che fanno, o il censo che godono o patiscono, o la cultura sportiva ed extrasportiva, o la loro ignoranza globale di sport e non solo. C’entra il ciclismo nel senso del suo fascino, il ciclismo umanizzatissimo che la motorizzazione ha indirettamente esaltato, che l’ecologia del mondo e del bipede che lo popola ha evidenziato come soluzione o quantomeno rimedio a molti mali da inquinamento, che l’estremizzazione di tanto, troppo sport, ha impreziosito sottolineando implicitamente la semplicità del pedalare. Questo mentre lo sport estremo, per solcare oceani, scalare monti, discendere grotte, domare onde di acqua o di neve, volare alla Icaro da montagne e su mari, con sussidi tecnologici assai spinti o con assunzione di rischi assai grandi o con la deriva su acrobazie clownesche, lo sport estremo dicevamo ha creato casomai spazi nuovi di interesse, ma al ciclismo non solo non ha tolto nulla, ma ha garantito confini che fanno la diversità.
Attenzione ancora: quanto ai miei interlocutori, nessuna morbosità nel chiedere, nel parlare di un certo ciclismo chiacchierato, tipo quello del doping, nessuna paternalistica attenzione concessa a poveri puzzapiedi fachiri della fatica, nessuna considerazione dei guadagni che sono ridicoli di fronte a quelli di altri protagonisti dello sport. No, proprio la voglia di bere e mangiare storie, di trasformare in calorie di pensiero positivo il senso umile e fortissimo di uno sport di fatica. E così siamo tornati nei pressi del caro ciclismo eroico: ma allora la fatica era la regola per vivere e sopravvivere, poi è subentrato il benessere, poi la tecnologia ha fornito all’uomo servizi enormi, e insomma la fatica di adesso è di grana fine, di caratura speciale, diversa, almeno nell’emisfero dei fortunati, fortunatamente non pochi.
P.s. Penso che anche nel caso di scoperta di tanti motorini di “assistenza alla pedalata” nelle bici dei corridori il ciclismo sopravviverebbe in questa dimensione umana e intanto fantastica, e insomma nel mio piccolo continuerebbero a chiedermi e io a sciorinare il mio bla-bla-bla. Penso, ma spero che non accada, nel senso che non ci sia quella scoperta che farebbe oscenamente felice, come lo ha fatto la scoperta del doping fra i ciclisti, tanto altro sport.
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