Trofeo Laigueglia 1974. Un uomo solo al comando: Eddy Merckx, evaso, da solo, dal gruppo. Dietro, al suo inseguimento, si lancia Enrico Paolini. Giorgio Albani, direttore sportivo di Merckx nella Molteni, frena il Cannibale: “C’è Paolini a 30 secondi. Aspettalo”. Merckx, contrariato, frena e aspetta, poi ricomincia a tirare. Trecento metri lui, cento Paolini. “Enrico, non fare il furbo”, gli intima. “A me basta arrivare secondo”, dichiara Paolini. Senonché Ernesto Colnago, che comanda l’ammiraglia della Scic, si avvicina a Paolini e gli ordina: “Di’ a Merckx se ti lascia vincere”. Come chiedere al boia di farsi ammazzare. Infatti Merckx gli risponde: “No”. E aggiunge: “Tu mi tiri la volata”. E Paolini, consapevole che disubbidire al Cannibale gli avrebbe rovinato la vita, gliela tirò. Primo Merckx, secondo Paolini, e terzo, staccato, Gimondi.
C’era anche Enrico Paolini al Giro d’Italia Under 23, nello staff della VPM Porto Sant’Elpidio Monte. Marchigiano, 73 anni (come Merckx), 11 da professionista (e 11 Giri d’Italia con sette vittorie di tappa), in tutto una trentina di vittorie fra cui tre campionati italiani. Il vecchio Paolini: umano, modesto, aperto, comprensivo, pronto a raccontarsi. Così.
La prima bici: “Quella di mio padre. Grigia, normale, freni da turismo, senza cambio, con i parafanghi. Ci andavo in giro, da solo o con gli amici, nella zona di Santa Maria delle Fabbrecce, e me la cavavo”. La prima bici da corsa: “Regalata da mio padre Aldo. Era una Bianchi, di quel colore lì, verde acqua. Gli era costata 45 mila lire, una mezza fortuna. Lui faceva un po’ di tutto, dal muratore al ferraiolo, cioè legava le gabbie per i pilastri. Avevo 15 anni”. La prima uscita: “Venerdì la bici, sabato l’uscita. Incontrai un gruppetto della Società ciclistica Rinascita di Pesaro. Mi unii al gruppetto. Da Pesaro a San Marino, una sessantina di chilometri, e ritorno, un’altra sessantina. Sulla Panoramica alungai, li staccai, poi li aspettai. E così mi iscrissi alla loro società”.
Il primo giallo: “C’era da fare la visita medica. Andai dal medico sociale, mi guardò, mi controllò, poi disse che non ero idoneo. Avevo il torace troppo piccolo. ‘Ritorna fra due mesi’, e mi consigliò di dedicarmi alla ginnastica svedese. Tornai a casa e piansi di dolore. Invece di eseguire gli esercizi prescritti – allargare le braccia per allargare anche il torace -, cercai un altro medico. Trovai il medico condotto, quello della mia famiglia, che era anche medico sportivo. Mi guardò, mi controllò, mi visitò, poi disse che era tutto a posto. E così mi tesserai”.
La prima corsa: “Da esordiente, a metà stagione. Quattordicesimo. E contento”. La prima vittoria: “A Padiglione di Osimo, in volata. E felice come una Pasqua. Come premio mi arrivò a casa un vaglia di 5 mila lire, due euro e mezzo di adesso, ma allora sembrava una gran cifra. E in più andavo a caccia dei traguardi volanti e dei gran premi della montagna, e tutto quello che guadagnavo, lo davo in casa, iscritto al bilancio familiare”. Due anni da esordiente e due da allievo, e intanto il cantiere navale: “Per mia fortuna il capocantiere aveva corso, e allora mi concedeva due mezze giornate, il martedì e il giovedì, per allenarmi. E per mia somma fortuna il titolare, che pure non aveva corso, si sentì coinvolto nella mia carriera. Il lunedì, quando entravo in cantiere, mi chiedevano come fosse andata. Se dicevo ‘primo’, mi davano altre 2-3 mila lire. Se dicevo ‘secondo’, altre mille. E alla fine facevo un secondo stipendio”.
Era una squadra artigianale: “Da dilettante junior, eravamo in due o tre. A volte si andava alle corse in taxi, con le bici sul tetto. Oppure sulle macchine dei tifosi, che durante il viaggio ci caricavano a molla”. Poi fu una squadra familiare: “Ad Albinea, vicino a Reggio Emilia. Adottato come un figlio. Camera e bagno. Quell’anno Wainer Franzoni ottenne 12 vittorie, io due ma facendogli da gregario. Franzoni fu chiamato dalla Gris 2000, che passava dai dilettanti ai professionisti. Disse: ‘Vengo, ma con Paolini’. Alla Gris 2000 erano incerti, e aspettarono. La successiva corsa la vinsi io, per distacco. E venimmo presi, tutti e due, dalla Scic”. Paolini non se ne andò più: ci corse 11 stagioni.
Quella volta che “al primo ritiro con la Scic, a Terracina, vidi Vittorio Adorni e gli dissi ‘buongiorno’, lui non sapeva se ridere o piangere, mi impose ‘diamoci del tu’, poi in corsa mi spiegava e mi comandava, ‘Enrico, va’ avanti, che adesso va via la fuga’, e infatti la fuga andava via”. Quella volta che “giù dal Carpegna, il tubolare si scollò dal cerchione, finii contro una segnaletica protetta da una balla di paglia, altrimenti non sarei qui a raccontarla, sotto c’era il precipizio”. Quella volta che “sul Grossglockner mi sembrava che la salita non finisse più”. Quella volta che “ai Mondiali del 1975, in Belgio, anche se avevo vinto la Coppa Bernocchi e andavo come una moto e stavo benissimo, Alfredo Martini mi convocò tra gli azzurri ma solo come riserva, e io ero così deluso che, ai box, non ci volevo neanche andare”. Quella volta che “al Tour del 1971 non partii nella diciannovesima e penultima tappa, per i dolori di una caduta, e pensare che ero nono nella generale e primo degli italiani”. E tutte quelle volte che “correvo davanti, perché prendere aria non mi dava fastidio, ero uomo da fughe, da attacchi, da avventure”.
Paolini fa presto a tirare le somme: “Una volta c’era più fame”. E l’appetito – lo insegnava proprio il Cannibale – veniva anche mangiando.
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