di Cristiano Gatti -
Buttare nell’indifferenziato Google Maps, Guide Michelin e tutto quel ciarpame lì. Non sono attendibili. Non qui. Al Giro si fa prima a tornare dall’Israele a Catania che a scendere dall’Etna. Magari posso sembrare fuoriluogo e fuoritema, perché sembra solo bassa geografia, ma in realtà sta diventando il problema centrale del Giro. Il Problema. E vorrei essere subito chiaro: questo non è lo sfogo del giornalista sfaticato e snob che si lamenta perché nella vita bisogna anche un po’ penare. Io da parte mia mi guido la macchina per ore e ore, da trenta Giri, e non ho la minima intenzione di farlo pesare a nessuno. Mi piace. E’ stancante, non lo nego: ma mi piace.
In questo caso però parlo in nome e per conto del corridore medio, chiamato quest’anno a una prova sinceramente disumana. E’ dall’inizio che dopo le fatiche previste dal loro ufficio, per contratto, devono sottoporsi a straordinari pure più pesanti dello stesso lavoro. Ne parlo solo ora, dopo una settimana di Giro, perché farlo alla prima occasione è da vere carogne. Può essere un caso, un’eccezione. E non è giusto farne subito una questione.
No, stavolta posso dire che siamo di fronte alla regola. La vera eccezione diventa quella dell’Etna, eccezione in quanto rasenta l’ingiusto e l’insostenibile. Non parlo a vanvera, per sentito dire: parlo da testimone. Posso giurare senza timori di smentita che la Bmc, casualmente alloggiata nel mio stesso albergo di Reggio Calabria, dopo la tappa del vulcano si è presentata alle 22,30. Uno può dire: sono stati in giro a zonzo, si sono fermati in qualche baccanale, si sono persi per strada, hanno caricato donnine. Ma devo smentire: sono arrivati dal semplice trasferimento, arrivo-albergo cinque ore spaccate. All’arrivo, ancora tutto da fare: lavaggi, massaggi, cene, incerottate, programmi, magari anche un saluto a moglie e figli, non sia mai che il Giro diventi pure un rovina-famiglie.
Come torno a dire, è un caso estremo, ma non un caso sporadico: è dall’inizio che i corridori arrivano al riposo in orari demenziali, dopo strapazzate improponibili. Già le esigenze del marketing li fa arrivare sul traguardo tra le 17,30 e le 18, ma poi c’è il peggio: l’interminabile trasferimento. Se non arrivano agli estremi delle 22,30, possono essere comunque le 21, con tutto quanto da fare.
Il vero problema è che quest’anno, con la storia della partenza in Israele (12 milioni tondi, un buon motivo), il patron Vegni si è ritrovato a calcare la mano. Rientro in Sicilia per non saltare il sud, ma anche l’esigenza di risalire in fretta verso le Alpi. Le tappe non bastano a coprire le distanze: servono anche lunghi dopotappa. Arrivo sull’Etna, partenza la mattina dopo da Pizzo Calabro: chi non è pratico, provi un po’ a vedere sull’Atlante. E così via. E così sia.
Ora: le ragioni di Vegni sono ragioni, non torti. Ma neppure il disagio e il malumore delle squadre possono essere dei torti. Il ciclismo è sport di fatica, lo sappiamo. Tant’è vero che non si corre al Foro Italico o a Piazza di Siena, in un tripudio di scollature, di perizoma in trasparenza e di bollicine alcoliche. Ma dovrà esserci un limite, santo cielo. Qui non si parla che di tecniche sopraffine per la gestione dei tempi nella vita di un atleta, i tempi di alimentazione e di riposo importanti quanto e magari più dei tempi di allenamento, poi si arriva al Giro e bisogna soltanto segnarsi per non schiattare. Purtroppo non ricordo nomi e cognomi di tutti quelli che me l’hanno detto, ma ricordo che sono tanti ad avermi spiegato come il vero campione vinca il grande giro pedalando forte, ma soprattutto sfruttando il suo invidiabile recupero. Spesso vince proprio chi recupera prima e meglio. Ma qui chi recupera? Come recupera?
Sarebbe ora che le squadre e le associazioni di categoria, anziché frignare se in camera non c’è Sky, alzassero giustamente la voce per pretendere maggiore considerazione. Il Giro ha le sue esigenze geopolitiche, sono sacre e nessuno le discute. Ma bisogna almeno tenere conto di un limite. Di una decenza.
A meno che, a meno che. A meno che non si venga ad annunciare ufficialmente che il Giro moderno non è più ciclismo. Basta, troppo banale. Si punta pesante sul fachirismo estremo. Si chiama Survivor d’Italia. E vince l’ultimo che resta in piedi.