PROFESSIONISTI | 27/02/2018 | 07:00 «Guardo il numero disteso sul letto e penso che è bellissimo. No, il 5 non ha nessun valore simbolico o mistico, non è quello il punto. Il fatto è che la Vuelta a San Juan è la corsa che avrebbe dovuto aprire la mia annata 2017. Quello che sarebbe diventato il mio annus horribilis. L’anno scorso in questi giorni mi misuravo con un dolore, quello al ginocchio, che non accennava a passare, e la paura che gli obiettivi e le ambizioni di un anno importante, con il tricolore addosso, potessero finire travolti. Niente San Juan, poi niente Dubai, niente Belgio, niente Roubaix. Trenta giorni di corse in un anno, l’ultima volta che ne avevo fatti così pochi di sicuro non avevo ancora la patente. Ma stavolta no. In Argentina ci sono arrivato, e ho anche digerito le quattro ore di fuso orario, io che quando si vola verso Ovest ho sempre qualche problema di troppo. Il numero è lì, mi guarda e io guardo lui, ma tra poche ore gli darò solo le spalle. Perché ricomincio a fare il mio lavoro. Non che nell’ultimo anno mi sia riposato. Tanta fisioterapia, tanti allenamenti - ad un certo punto persino troppi - e tanta frustrazione. Tutto per tornare ad attaccare il numero sulla schiena, tutto per sentirmi di nuovo Giacomo Nizzolo».
Così sul suo blog scriveva il velocista della Trek Segafredo alla vigilia della sua prima corsa del 2018, dopo un anno davvero tribolato. Il 29enne brianzolo in Argentina si è buttato negli sprint con una cattiveria mai avuta perché «quando arrivi da 365 giorni da buttare non vedi l’ora di rifarti».
Ripartiamo dal 2017: una stagione che hai definito da incubo. «Ogni volta che sembrava potessi tornare a correre, saltava fuori qualcosa che mi metteva i bastoni tra le ruote. È stato un continuo rincorrere, non riuscire a trovare una soluzione ai problemi fisici che mi affliggevano: è stato davvero frustante, ma sono riuscito comunque a chiudere la stagione in gruppo in Cina, al Tour of Guangxi, e questo è stato molto importante per poi affrontare l’inverno con più serenità. Ciò che mi ha bloccato è stato il risultato di un insieme di fattori. Non c’è stata un’unica ragione ma una serie di motivi che, dopo il problema al ginocchio, hanno fatto sì che il mio fisico non rispondesse come doveva. Allenandomi, invece di abituarmi a resistere sotto sforzo e trarne quindi benefici, avevo solo controindicazioni e per questo sono stato costretto a riposare. Si è parlato di sindrome da sovrallenamento, ma non è stato solo questo il problema. Di certo ho iniziato la stagione tardi per colpa del ginocchio e al Giro d’Italia mi sono tirato un po’ il collo. Non è facile stare tranquillo quando vuoi cercare il risultato».
Chi è stato al tuo fianco? «Tante persone mi sono state vicine, altre meno. Diciamo che questo periodo mi è servito per fare un po’ di pulizia e chiarezza. Non ho il dente avvelenato con nessuno nello specifico, ma nei momenti difficili capisci chi davvero ti sta accanto perché lo desidera e lo fa disinteressatamente come la famiglia: la mia è stata una sicurezza, anche questa volta. Devo ringraziare tutta la squadra, che non mi ha mai forzato, e in particolare il mio preparatore Josu Larrazabal. Sono convinto che tutto nella vita serva a crescere, quest’annata disgraziata mi aiuterà ad affrontare meglio ciò che mi aspetta nel futuro. In particolare mi ha insegnato a curare i dettagli. Quando le cose vanno bene non stai a guardare il pelo nell’uovo, quando la vita si fa più dura impari a dare importanza ad ogni aspetto dell’allenamento come del recupero. Ho imparato il metodo di lavoro da seguire al cento per cento e ho una cattiveria diversa. Avevo proprio voglia di tornare a correre».
Un ruolo importante nel tuo recupero lo hanno svolto anche gli specialisti del Centro Ricerche Mapei Sport. «Esatto. Il loro supporto è stato fondamentale, i riscontri che mi hanno fornito i medici e i preparatori di Mapei Sport sono uno di quei dettagli a cui in passato non avrei dato troppa importanza, mentre ora sono consapevole che possono fare la differenza. Sono uno strumento prezioso di cui mi sono reso conto proprio durante questa esperienza. Grazie a loro, siamo riusciti a inquadrare meglio il problema e, con i dati che mi hanno fornito, a monitorarlo. Abbiamo seguito un protocollo specifico per l’overtraining e mi hanno supportato per il rientro, affiancando lo staff del team nel determinare i carichi di lavoro e l’allenamento. Ogni volta che andavo ad Olgiate Olona (VA) era un giorno importante perché capivo a che punto ero del mio recupero. Ringrazio medici e preparatori che mi hanno messo a disposizione il loro tempo e la loro professionalità».
Ora come stai? «Onestamente mi sta pesando molto il fatto di aver passato un anno praticamente fermo. A livello fisico sento che mi manca quella forza di base che avevo acquisito negli ultimi anni e che all’inizio del 2017, dopo un buon 2016, sentivo di avere. In questa prima fase della stagione l’obiettivo è mettere un mattoncino alla volta per tornare nella “casa” che mi ero costruito. Quando stai tanto lontano dalle gare, la prima cosa da recuperare è la base, quindi mi sono concentrato meno sui lavori specifici che sarebbero serviti ad allenare le mie qualità da sprinter e più sul fare fondo macinando chilometri. Ci sono tanti step da affrontare, senza fretta. Avverto senz’altro sensazioni diverse dall’inizio dell’anno scorso e questo mi rende felice però sono consapevole che dopo un anno così dovrò lavorare tanto, per ottenere probabilmente meno del solito. Magari non accadrà in assoluto, ma i valori confermano le mie sensazioni, c’è un anno da recuperare con il quale fare i conti, ma ciò non mi spaventa. Sono sicuro che al di là di tutto, se non sarà tra un mese sarà tra due, se non sarà quest’anno sarà tra due, ma tornerò al livello del 2016». In Argentina, proprio l’ultimo giorno è arrivato il successo e hai definitivamente voltato pagina. «Sono davvero felice! L’ultima tappa per noi della Trek Segafredo è stata davvero speciale: ci siamo accollati il peso della corsa e abbiamo lavorato tanto. Non mi si addicono le volate così lineari, preferisco quelle più tecniche, ma la volevo tantissimo e ho dato il massimo. La vittoria di San Juan la dedico alla squadra e a tutta la mia famiglia che, come ho già detto, mi sono state vicino in questo anno davvero difficile. Non sono ancora a livello del 2016, lo so bene, ma questa vittoria mi dà tanto morale per puntare ai grandi obiettivi della stagione».
E in Argentina ti sei tolto anche un altro grande sfizio. «Sì, sono andato per curiosità al bivacco della Parigi-Dakar. Da appassionato di motori quale sono, l’esperienza mi ha colpito più di quanto immaginassi. Pensavo che i partecipanti fossero piloti un po’ più folli degli altri, ho scoperto un mondo di fatica e di passione che a malapena immaginavo. Ce ne vuole tanta, di passione, per fare la Dakar. E penso soprattutto ai piloti privati, quelli senza il supporto delle squadre ufficiali, quelli che la sera, se hanno la fortuna di finire la tappa, si trasformano in meccanici e si mettono al lavoro per ripartire il giorno dopo. Un giorno, da grande, vorrei disputarla anch’io. Se come pilota ufficiale, tanto meglio. Prima, però, ho un altro giro del mondo da continuare in bicicletta, quello che iniziamo tutti gli anni in gennaio, quello che l’anno scorso per me ha vissuto solo false partenze e repentini rientri alla base. Ma adesso sono tornato, per davvero».
Sei proprio un pilota mancato... «I motori sono la mia grande passione, da sempre. Da piccolo gareggiavo con le minimoto e sognavo di diventare un motociclista, ma papà Franco e mamma Marina avevano notato che passavo più ore in sella alla bici che alla moto, così al mio settimo compleanno mi hanno regalato l’iscrizione al Velo Club Sovico, la squadra del paese dove vivevamo (ora abita a Chiasso, ndr). Ho iniziato a pedalare prima solo per divertimento, poi pensando al professionismo. L’amore per i motori, che chiaramente non posso coltivare molto, non posso però nasconderlo».
Quali gare prevede il tuo calendario? «Ho corso negli Emirati, ho corso in Belgio, mi aspettano la Tirreno-Adriatico, Milano-Sanremo e le altre Classiche. Dopodiché vedremo cosa converrà fare per i grandi giri. Al Giro d’Italia da italiano sono particolarmente legato, ma mi ispira anche l’idea di debuttare al Tour de France. Arrivando da un anno difficile devo capire cosa è funzionale per me e per la squadra, ho capito che esagerare non porta a nulla di buono, bisogna fare le cose nel modo giusto».
Il ciclismo ti diverte sempre come agli inizi? «Sì, ormai è il mio lavoro a tutti gli effetti ma mi ritengo fortunatissimo perché i sacrifici che comporta non mi pesano. Corro in bici perché amo la competizione, quello che più mi rende felice della mia professione è il piacere di confrontarmi con me stesso e con gli avversari. Mi scoccia molto aver sprecato un anno, ma ormai è passato e guardo avanti con fiducia e voglia di rivincita».
Cosa ti passa per la testa quando sei in volata? «Adrenalina pura e concentrazione massima. In nessun altro momento della vita sono così focalizzato su un obiettivo e mi impegno tanto per raggiungerlo. Una volta tagliato il traguardo, se ho vinto provo felicità e un senso di liberazione, se perdo invece ripenso a cosa ho sbagliato. Tagliata la linea del traguardo analizzo lo sprint, me lo rivedo in testa. Penso subito a quali sono stati i motivi che mi hanno portato a vincere o a perdere».
Cosa chiedi al nuovo anno? «Voglio continuare a lavorare con la stessa determinazione dell’inverno, i risultati arriveranno di conseguenza. Nel 2016 ho conquistato il Campionato Italiano insieme ad altre cinque corse e al quinto posto al mondiale di Doha. Voglio tornare a quei livelli. Non ho nel mirino una gara in particolare perché mi piacerebbe prima di tutto tornare ad essere competitivo come ero, poi ogni occasione sarà buona e da sfruttare per vincere».
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