Quel giorno non ebbe bisogno di lanciare via la bandana e nemmeno gli occhiali, l’orecchino o il brillantino che portava al naso, gli fu sufficiente indossare la maglia gialla e alzare il bracco destro, che in quella circostanza gli sollevò al cielo nientemeno che Felice Gimondi, l’ultimo italiano a vincere il Tour, trentatré anni prima di lui.
Correva l’anno 1998 e soprattutto correva Marco Pantani, che per l’occasione si era presentato con tanto di pizzetto e baffi gialli d’ordinanza fatti dall’amico parrucchiere Alberto Mancusi per salire sul grandino più alto del podio dei Campi Elisi ed essere incoronato come vincitore del Tour de France, la corsa più prestigiosa al mondo. Era il 2 agosto, venticinque anni fa oggi e, dopo aver vinto quasi due mesi prima il Giro d’Italia, il fuoriclasse di Cesenatico unì alla rosa il giallo della Grande Boucle.
Sono passati venticinque anni da quel giorno luminescente e radioso, ma il ricordo di quell’estate calda e stordente ci è restato nel cuore nitido e intenso come non mai. «Ricordo tutto alla perfezione: non potrebbe essere diversamente – ci racconta Beppe Martinelli, che di quella Mercatone Uno era il direttore sportivo -. Marco ha scritto pagine memorabili di questo sport e io posso solo dire di avere avuto la fortuna d’incontrarlo sulla mia strada. Ricordo come se fosse ieri l’antefatto di quella avventura che nemmeno doveva esserci. Difatti dopo il successo sulle strade del Giro, Marco non avrebbe voluto correre quel Tour. Poi ci fu l’improvvisa morte di Luciano Pezzi, presidente e team-manager di quella Mercatone Uno e allora riuscimmo a toccare le corde giuste di Marco che a Luciano era legatissimo. Di lui aveva un autentico rispetto, diciamo piuttosto una venerazione: quando Pezzi parlava, Marco ascoltava rapito. Pezzi era convinto che Marco fosse l’unico in grado di poter riportare in Italia il Tour e lo sosteneva uno che aveva guidato un giovanissimo Felice Gimondi in maglia gialla fino a Parigi come direttore sportivo di quella fantastica Salvarani. Partimmo con l’intenzione di vincere una o due tappe di montagna e, francamente, nessuno di noi aveva il minimo pensiero rivolto alla maglia gialla. L’unico, forse, era Marco che come di consueto dovevi convincerlo a fare una cosa, ma una volta che lo avevi rimesso in sella con il numero sulla schiena, lui riacquistava immediatamente lo spirito agonistico e ingaggiava la sfida con il mondo: lui contro tutti. Era un corridore fantastico, che sapeva fare cose uniche, che in quell’estate indimenticabile regalò a tutti noi un prezioso goiello del quale solo oggi conosciamo compiutamente il valore».
L’inizio, però, non fu dei più semplici. Un avvio in salita, nonostante la strada fosse assolutamente pianeggiante. «Fu così, perché dopo il Giro Marco aveva staccato. Per dodici giorni non toccò la bicicletta: dal circuito di Bologna post Giro a quella telefonata di Marco nella quale mi dice… “ma io non ho la bicicletta”, passarono appunto quasi due settimane, nelle quali Marco fece di tutto fuorché pedalare. Era il 24 giugno, per Marco il discorso era chiuso: c’era da andare solo al mare. Poi il 26 mancò Pezzi e lo convincemmo e partimmo alla volta del Tour, destinazione Dublino. Male in Irlanda (169° a 48” da Boardman, ndr), male nella crono di Correze, nella quale pagò a Ullrich 4 minuti, anche se io lo considerai un successo. Su quelle distanze (58 km, ndr) Marco avrebbe dovuto prenderne quasi il doppio e fu in quel momento che compresi che non eravamo lì per fare i turisti, ma la cosa che più contava è che lo capì lui».
Difatti, arriva la vittoria di tappa a Plateau de Beille e, cinque giorni dopo, il volo leggendario sul Galibier che lo portò a Les Deux Alpes e lo proiettò in cima al Tour in maglia gialla. «Sapevamo che Ullrich era vulnerabile sotto l’aspetto emotivo. Se fossimo riusciti ad isolarlo, sarebbe andato nel panico, come poi successe. Marco era forte, sia di gambe che di testa, in quelle situazioni si esaltava, non c’era bisogno di dirgli nulla, se non accompagnarlo verso il trionfo. Marco fece qualcosa di pazzesco, un volo di rara bellezza, che ancora oggi vivo nei miei pensieri come una delle fiabe più belle vissute nella mia vita».
Di quel giorno conservo anch’io tantissimi ricordi. Conservo ancora quella camicia gialla che indossammo in suo onore sui Campi Elisi io così come i miei fraterni amici e compagni di viaggio, Cristiano Gatti e Angelo Costa, unitamente agli amici di quell’avventura Pietro Cabras e Alessandra Giardini. Nella foto che pubblichiamo, c’è anche Giovanni Cerruti, inviato de “La Stampa”, nascosto dalla mano di un raggiante Marco, che si fermò a festeggiare con noi. Dovete sapere che quella stessa camicia gialla la indossai anche per il trionfo di Vincenzo Nibali. E ce l’ho sempre lì: chissà mai…
Venticinque anni ricchi di avvenimenti e storie, più o meno felici, anche se io con Angelo e Cristiano ci siamo riproposti di narrare solo le magnifiche imprese di Marco, capace di scalare le montagne come nessuno. Ci siamo impegnati nel raccontare solo il bello di un campione di prima grandezza e di altrettanta struggente bellezza, che ci faceva battere il cuore e sudare le mani, come se tutti noi fossimo in un certo qual modo innamorati di lui, e forse lo eravamo per davvero.
Venticinque anni fa, il 2 agosto 1998, un ragazzo fantastico che veniva dal mare e amava le montagne, non gettò via né bandana occhiali orecchino o brillantino, ma andò solo ad indossare una maglia dal colore dei girasoli e con Gimondi alzò un braccio verso il cielo, come ad indicare la sua eternità sportiva.